CARO TANO, LA MUSICA MEDITERRANEA NO! di Pepi Burgio

Carissimo Tano,
mi sento lusingato nell’apprendere che alcune mie affermazioni, sia pure perché radicalmente contrastate, contribuiscono alla realizzazione dei tuoi video. Ma veniamo al dunque. Non mi sogno nemmeno di mettere in discussione la complessa articolazione dei tuoi convincimenti, perché so bene con quanta profondità e rigore sei solito osservare ciò che ti circonda. Ma intendo sottrarmi all’ordine del giorno che d’imperio stabilisci, inondandomi di considerazioni sociologiche, ideologiche, delle quali faccio in genere volentieri a meno quando mi riferisco alla musica. E intendo sottrarmi anche alle parole che usi, quasi mai innocenti, come “ricerche autoriali”, “musica d’autore”, “musica etnica”, che fanno tanto “Istituto di Sociologia della Musica”.
Reputo velleitario ogni tentativo di schiodarti dai tuoi ferrei convincimenti, in quanto il tuo rapporto con la musica rimane fondamentalmente di tipo concettuale, mediato, “pensato”. Ricordo che una volta, dopo averti fatto ascoltare un brano di Bob Dylan (Simple twist of fate), mi hai chiesto, con aria perplessa e severa ad un tempo, del “testo”.
Richiesta legittima, se nel tono della tua voce ed in un’altra serie copiosa di indizi espressivi, non avessi ancora una volta colto l’improbabilità di intendersi.
Vedi, caro Tano, noi non abbiamo vissuto assieme l’adolescenza e nemmeno gran parte della giovinezza, le età delle visioni, quando, come dice Pietro Leveratto, “ci si nutre della vita degli altri per fare in modo che la propria abbia inizio da qualche parte”. Io, da bambino, ho cominciato replicando i movimenti scatenati e scimmieschi di “24.000 baci” e di “Ciao ti dirò”; e la voce urlata senza vera ispirazione (ma questo passava il convento) di chi faceva riferimento (all’amatriciana) alla vita degli altri oltreoceano. Quella che, originale ed autentica, fin dagli anni cinquanta si è felicemente propagata dagli USA a tante altre parti del mondo; proponendosi attraverso una serrata, sensuale, scansione ritmica che, assieme allo sfregamento cui questa alludeva e rimandava, attiene alle origini della vita, alla congiunzione dei corpi ad essa indispensabile. Altro che “testo”.
Ma poi, ti accontenti davvero di scadute, spuntate categorie come quella che sostiene che “la diffusione planetaria della musica rock sia stata soprattutto espressione dell’egemonia culturale degli Stati Uniti”? E i padri nobili, i veri inconsapevoli e involontari antesignani di tanta musica (Louis Armstrong, Duke Ellington, Charlie Parker, Sarah Vaughan, Billie Holiday, Ella Fitzgerald, John Coltrane, Miles Davis, Muddie Waters, Aretha Franklin e mille altri ancora) come li consideriamo, come fortunati musicisti che hanno goduto anch’essi, prima di tanti altri, del vento in poppa al tempo dell’egemonia culturale USA? O piuttosto come straordinari artisti, veri benefattori dell’umanità, protagonisti di una stagione lunga ed irripetibile che ci ha consegnato una teoria sterminata di splendidi doni spirituali?
Poi, vorrei rassicurarti, parzialmente almeno, dicendoti che una parte consistente della musica rock la trovo insignificante, di maniera, quando non irritante e fastidiosa, come quella che in genere viene trasmessa da un network specializzato. Ciò vale anche per il blues e per il jazz, tanto più capaci di emozionarmi, di commuovermi e di…smuovermi, quanto più indietro collocati nel tempo; quando, anteriormente ad ogni gelida ed ideologica ibridazione tipo “etnomusic” o “worldmusic”, prevalevano quelle “sonorità africane” a cui fai riferimento. Vedi ancora, caro Tano, negli anni in cui ascoltavo il “White Album” e “Let it bleed”, tu probabilmente ritenevi più interessante occuparti di Althusser e dintorni, negandoti senza esitazione a quel “bi bop a lula” che ti sarà apparso come palese autocertificazione di assoluta inconsistenza. E se proprio ti avesse punto qualche vaghezza dionisiaca, avresti attinto al repertorio canoro antimilitarista della I guerra mondiale. C’è una stagione della vita, quella giovanile, destinata ad incrociare qualcosa che faccia intravedere la possibilità di essere libero: la musica è una delle forme più ricche e significative per intercettare questo “qualcosa”. Ma a patto che l’autobus su cui viaggia venga preso in tempo. Altrimenti…
Altrimenti, pur sempre con eleganza, ci si avviterà, come tu fai, nell’accompagnare, ad immagini quasi sempre molto belle, brani musicali che, quandanche di qualità, appaiono inevitabilmente giustapposti. E sono quindi sinceramente dispiaciuto per non avere potuto ascoltare, alcuni decenni fa, assieme ad un amico della tua sensibilità, fra le altre cose, le prime note, sublimi e sensuali, distillate da Jimi Hendrix in “The wind cries Mary” sul manico capovolto della Fender stratocaster, amplificate dalla calda robustezza delle valvole del Marshall.
Una volta mi hai detto che il cinema è una delle poche cose per cui vale la pena vivere. Sono perfettamente d’accordo; e con esso i racconti struggenti dalle tante periferie del mondo che ci hai fatto conoscere; e la capacità di intrecciare le parole in orditi di rara puntualità e grazia. Un esempio fresco? “Per provare la ricchezza musicale, la molteplicità che si mescola, si ibrida ancora oggi, si unifica, trapassa nel tempo e permane, attraversando quel mare che oggi culla o affonda i destini di una moltitudine di disperati”. Davvero molto bello, come spesso ti accade quando descrivi in maniera accorata e poetica il dolore del mondo. Mi sembra di vedere un nostro comune amico che sussurra ammirato, alla sua maniera, scandendo enfaticamente qualche tua frase con ieratica gestualità. Ma la “musica mediterranea”, quella no, credimi; anche perché qualora volessimo artificiosamente farla consistere in una “dimensione unitaria”, prima o poi si dimostrerebbe di cartone, buona soltanto a fare da fondale a qualche esotico “sogno arabo”.
Ma forse tutto questo è soltanto un’idea, un’idea come un’ altra. Come Genova.
Ti abbraccio,
        Pepi.
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