IL RENZISMO COME VERSIONE GIOVANILE DEL VELTRONISMO di Giovanni Taglialavoro

Matteo Renzi alla guida del governo italiano non è il risultato di un colpo di mano, ma di un doppio voto popolare: il primo, quello delle elezioni di un anno fa che hanno dato al Pd la maggioranza assoluta alla camera, relegato il centro destra ad un ruolo del tutto marginale e dato alla forze antimoderate quasi due terzi della rappresentanza; il secondo voto, le primarie del Pd di dicembre, che hanno visto il trionfo di Renzi.
Dopo la sentenza della corte costituzionale sul 'Porcellum' e dopo il rifiuto di Napolitano di andare subito al voto dopo l'approvazione dell'Italicum, Renzi ha deciso di accelerare i tempi e di assumersi la piena responsabilità della guida del governo.
Il corpaccione del Pd, quello parlamentare e quello degli apparati locali, vive questo approdo come se un estraneo si fosse impossessato delle loro attese, del loro linguaggio, della loro storia e identità: l'ovazione riservata all'abbraccio Bersani-Letta, ossia ai due principali responsabili della mancata vittoria del Pd e di otto mesi di governo impastoiato nelle mediazioni interminabili, rappresenta plasticamente questo smarrimento che spinge i parlamentari a vivere con orgoglio le sconfitte e con timore e riluttanza le possibili vittorie.
Sfugge ai più, o forse, al contrario, è terribilmente presente, il fatto che il pd arriva a guidare il governo col suo segretario forte di una delega popolare inedita e fragorosa e di una popolarità senza precedenti.
Basterebbe vedere la goffa manovra di aggiramento che Forza Italia sta tentando con appropriazioni indebite del leader fiorentino per capire la marginalità in cui è relegata l'opposizione di destra in questo momento e le potenzialità di sviluppo dell'azione di governo.
E invece si preferisce vedere in ciò la conferma dell'identità dubbia di Renzi. Si rimpiange una perduta purezza e alternatività, più detta che praticata, che votava alla minoritarietà e finiva con l'imporre alleanze con con quote moderate del centro destra. Altro che un diretto allargamento del consenso verso i suoi elettori! Siamo insomma ancora alla disputa veltroniana se puntare o no ad una partito a vocazione maggioritaria e dunque necessariamente inclusivo o se non sia preferibile un partito più definito nella sua identità, minoritario e obbligato alle alleanze.
Non si vuole prendere atto che quest'ultima ipotesi di partito è fallita con Bersani nello stesso momento in cui dava il massimo possibile.
E' il caso forse di ricordare da dove si viene.
2008, fallisce miseramente l'esperienza del governo Prodi frutto dell'Unione. Si invoca un'uscita in campo aperto di Veltroni, allora sindaco di Roma, cui si affida il compito di dare vita al partito democratico. La delega sembra totale, in realtà D'Alema e Bersani lavorano a mettere in piedi una corrente organizzata con una propria Tv e un proprio organigramma. Veltroni cerca di cambiare pelle al suo partito facendo capilista personaggi come Madia e Calearo e rompendo con linguaggio e riti tipici della sinistra di origine. Ma come molte cose veltroniane anche quell'operazione fu sostanzialmente di facciata: per limiti suoi e per la tenace resistenza del vecchio, in realtà il Pd sembrava un attempato signore con addosso abiti giovanili che alla prima sconfitta furono dismessi a favore delle più rassicuranti grisaglie che sapevano di naftalina e di tortellini.
Il Pd di Bersani, timido e onesto, si vota alla sconfitta quando veicola l'idea che davanti al disastro berlusconiano prima viene l'Italia, ossia il governo Monti, e non il Pd, dichiarando in tal modo l'irrilevanza del suo partito ai fini del destino della nazione.
Era un'idea di partito subalterno quella che Bersani proponeva e non è un caso che la disputa politica girò spesso attorno a chi dovesse allearsi piuttosto che a quale idea di Italia puntasse. E' in questo contesto che matura Renzi: matura cioè l'idea veltroniana di un partito postideologico, moderato sul terreno economico, ma radicale su quello del rinnovamento del ceto politico che perde la battaglia delle primarie facendo compiere fino in fondo il destino del Pd a guida ex comunista.
All'indomani del voto fu chiara l'incapacità di Bersani di prendere atto del risultato e di sparigliare: seppe solamente tenere il punto sulla sua persona non capendo che sarebbe stata travolta sia sul versante del governo che su quello della presidenza della repubblica.
Letta era il tentativo ancora una volta di ritagliare al Pd un ruolo di governo con l'illusione di un'autonomia di sinistra più declamata che praticata. Al partito i tempi lunghi, al governo il tempo breve dell'immediatezza.
Renzi ovviamente rifiuta questa separazione e non volendo caricarsi del peso di un governo, quello di Letta, destinato al pantano, ribalta gli equilibri e assume il carico del governo.
Non un colpo di mano, ma una tappa di un percorso lungo, i cui risultati non sono prevedibili.
Adesso Renzi ha due possibilità: o gioca tutto per realizzare alcune cose che diano il segno del cambiamento radicale (lavoro e legge elettorale) contribuendo a destrutturare le forze in parlamento o, ritenendo gli attuali equilibri parlamentari paralizzanti, fare di Palazzo Chigi l'avamposto più efficace per una nuova campagna elettorale. Ma attenzione non è la partita di Renzi, è la partita del Pd e dell'Italia.

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