"DA DOVE SI PERDE L'ACQUA?" di Gaetano Savatteri

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Cronista a Palermo, uno dei primissimi insegnamenti ricevuti nella cinica vita quotidiana in redazione riguardò l’abominio della ripetizione: nessuna parola poteva essere scritta più di una volta nello stesso paragrafo. Il gioco dei sinonimi era semplice per alcune parole: assassino, sicario, killer, esecutore, omicida, macellaio. Ma c’era un caso in cui l’esercizio del sinonimo diventava impossibile. E questo succedeva ogni volta che si parlava di acqua. Il pezzo sulla mancanza d’acqua a Palermo e in Sicilia è sempre stato un leit-motiv di qualunque giornale siciliano. Ma avevi voglia di trovare sinonimi: crisi idrica, siccità, penuria. La parola acqua era ed è insostituibile. Invalse l’abitudine di usare una perifrasi. Era quindi facile leggere articoli che esordivano così: “Manca l’acqua nel quartiere Sperone. Da cinque giorni il prezioso liquido non sgorga più dai rubinetti”. Eccetera eccetera.
Dunque, “il prezioso liquido”. Formula che mi sembrava più insulsa di una perdonabile iterazione. In realtà, in quella perifrasi si annidavano molte cose, e soprattutto la percezione diffusa che in Sicilia l’acqua fosse preziosa per chi la usava e per chi la concedeva. Sull’acqua, sui pozzi, sulla distribuzione, sulle risorse, sulle dighe, sugli acquedotti, sui dissalatori si sono costruite carriere politiche, affari, equilibri criminali. Un giornalista come Mario Francese, ammazzato nel 1979, fu ucciso proprio per gli articoli che aveva scritto sulla costruzione della diga Garcia, il business che contribuì ad  accrescere la potenza dei corleonesi di Liggio, Riina e Provenzano, aiutandoli a stringere le alleanze mafiose ed economiche necessarie a tessere il dominio dentro e fuori Cosa Nostra.
Il testo di Leonardo Sciascia riscoperto da Giovanni Taglialavoro serve a far capire che lo scrittore di Racalmuto aveva presto intuito che l’acqua – e in particolare lo sfruttamento della carenza d’acqua – costituiva lo snodo strategico sul quale la classe dirigente siciliana, sia mafiosa che politica, stava indirizzando la propria capacità di condizionare la Sicilia, ponendo l’ipoteca sullo sviluppo dell’isola. Già nel 1968, proprio mentre le battaglie di Danilo Dolci, i digiuni e le marce, spingevano verso la realizzazione di infrastrutture idriche essenziali per cambiare il volto della campagna dell’interno della Sicilia, Leonardo Sciascia indicava una possibile alternativa. Sfruttare le risorse idriche del sottosuolo avrebbe significato togliere alla mafia dei pozzi uno strumento di controllo sul territorio, reperire disponibilità d’acqua parzialmente slegate dagli indici di piovosità, censire la ricchezza delle falde acquifere di cui la Sicilia è sempre stata ricca.
Ma così non fu. Quella della grande sete, fu uno dei temi ricorrenti di  Sciascia. E non poteva essere altrimenti. Nella mancanza del “prezioso liquido”, nella sete si riverberava – e ancora se ne risente l’eco – la sete di giustizia, di democrazia, di efficienza. La mancanza d’acqua diventava, plasticamente, tangibilmente, il simbolo delle molteplici mancanze della Sicilia. La Sicilia terra “senza”: senz’acqua, senza legalità, senza legge, senza diritti. Dalla mancanza d’acqua, dalla carenza del “prezioso liquido” era chiaro che non potevano non discendere a cascata, viene ironicamente da dire, molte altre carenze. Al punto da immaginare che in una Sicilia con l’acqua, tutti gli altri deficit verrebbero man mano a colmarsi, in un allineamento virtuoso di vasi comunicanti.     
Appena pochi anni prima, nel 1962, lo scrittore favarese Antonio Russello aveva scritto il romanzo La grande sete, ispirato all’omicidio del commissario Tandoj, assassinato il 30 maggio 1960 ad Agrigento, primo “delitto eccellente” declinato come delitto privato. Russello nel suo romanzo descrive una porzione della provincia di Agrigento schiacciata dallo scirocco, dal caldo, nel quale tutti chiedono acqua, guardando invano verso il cielo implacabile sopra le proprie teste. Una tragedia consumata sotto lo sguardo incandescente di un dio feroce. Ma l’analisi di Sciascia va oltre: non si ferma al clima inclemente e alla siccità, alle arsure, al paesaggio “irredimibile”.
Sciascia indica i responsabili: i gattopardi, cioè “quegli antichi signori e amministratori della città che hanno ceduto ora il passo agli sciacalli”. Poi, un’occhiata ai documenti ufficiali e l’amara certezza di trovarsi di fronte a piani, programmi, intenzioni assolutamente velleitarie. Come nella Milocca raccontata da Pirandello, dove ogni sera il consiglio comunale discute con passione sul miglior sistema di illuminazione pubblica, confrontando quanto accade a Londra, Amsterdam e New York, prima di aggiornare a nuova data la seduta, mentre il paese fuori è sempre al buio; come nella Milocca pirandelliana, la Sicilia del 1968 fissava al 2015 la data in cui la grande sete si sarebbe finalmente risolta. E fuori, l’isola a secco.
Il 12 luglio 1983, Sciascia tornava sull’argomento con un articolo sul Corriere della Sera: “Perché la Sicilia soffre la sete”. Metteva insieme dati, ricordava che nel 1844 Palermo disponeva di 165 litri d’acqua per abitante, rispetto ai 132 di Londra e ai 115 di Dublino (Roma no: ne aveva mille litri per abitante). Oltre un secolo dopo, Palermo disponeva sempre di 165 litri d’acqua per abitante. Negli anni Ottanta l’impegno pubblico in Sicilia puntava tutto sulle dighe – così come prevedeva il piano messo a punto quindici anni prima – mentre le falde acquifere erano ormai in mano ai privati che avevano trivellato, scavato pozzi, irrigato campagne, riempito piscine e venduto acqua senza alcuna autorizzazione e controllo, anzi con la muta complicità di enti e istituzioni pubbliche. Per Sciascia era lampante la ragione della scelta politica di costruire dighe: “E’ gratuito il sospetto che la ragione di questa preferenza sia dovuta al fatto che costano molto e che le tangenti percentuali in proporzione si elevano?”.
Visto col cannocchiale del 1968, il 2015 era un anno fumoso e lontano. Sciascia sapeva che non avrebbe varcato quel traguardo. Ma per noi che ormai quasi ci siamo, è evidente che la profezia sciasciana non era errata. In realtà i lavori si sono conclusi, le dighe sono state costruite. Abbiamo aspettato molto di più per il completamento delle tubature che dovevano portare l’acqua dagli invasi alle condutture idriche, ma ormai in Sicilia tutto il fabbisogno d’acqua dipende dal cielo. Bastano uno, due anni di siccità e i fiumi si asciugano, le dighe si svuotano. Restano ancora, misteriosamente, città all’asciutto – città come Agrigento, Licata, Favara. Guarda caso, le stesse citate nel testo di Sciascia. E viene da chiedersi, sicilianamente e con siciliana rassegnazione: “Da dove si perde l’acqua?”.  

 

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