PIRANDELLO O IL LABIRINTO DEGLI SGUARDI di Tano Siracusa

Lo sguardo è una delle nostre finestre sul mondo. Non la sola, come sanno bene i ciechi, ma secondo alcuni filosofi e il senso comune la più importante.

Questa ovvietà è un'affermazione filosoficamente impegnativa, poiché postula  che fuori di me ci sia un mondo. Non tutti pare ne siano convinti, molti pensatori o poeti o scrittori lo hanno messo in dubbio. Che la vita sia un sogno, oggi potremmo dire un film, che ci sveglieremo o usciremo dalla sala e ci accorgeremo di avere sognato, che era solo un film: non è improbabile pensarlo, almeno una volta nella vita.  Forse persino crederlo.

Ma se lo sguardo non è una finestra sul mondo ma è il mondo, il mio mondo, allora lo sguardo perde ogni innocenza e diventa ciò che la lingua, le parole a volte rivelano: funzione elementare, primordiale di potere, di dominio. 

In molte lingue neolatine il verbo guardare significa controllare, tenere a bada, appunto 'sott'occhio'. Non significa vedere, o meglio ne esplicita una funzione particolare. E' così in castigliano e in siciliano, lingue nelle quali  il vedere è significato da altri verbi: mirar, ver, vidiri o taliari. E tuttavia anche nell'italiano il verbo guardare perde la sua innocenza quando si fa sostantivo: guardia, guardiano. E viene in mente il carcere, il manicomio. O le cose.
Lo sguardo, il guardare non sono innocenti, mirano, traguardano il controllo, il dominio sull'intera trama della nostra esperienza. Ma c'è il mondo delle cose, e c'è quello dei viventi, e fra i viventi ci sono gli altri uomini. Gli altri.  

Sulle cose è relativamente facile esercitare il proprio controllo, anche se per alcuni nevrotici persino il controllo sulle cose può essere problematico. Ma tutto si complica  se nel mio orizzonte visivo entra un altro.
L'altro che guardo è parte del mio mondo, è un dato della mia esperienza visiva, se chiudo gli occhi scompare. Eppure so che questo controllo assoluto è illusorio perché anche l'altro mi sta guardando. Io sono un altro per l'altro, il suo sguardo sul mondo non soltanto non è il mio, ma mi include, mi degrada a semplice elemento di una esperienza visiva non mia. Lui mi guarda e mi vede come mi posso vedere allo specchio, 'da fuori'.

E' davanti uno specchio che Moscarda all'inizio del romanzo, l'ultimo di Pirandello, si scopre altro per gli altri. Ed ha inizio una farneticante e lucida  progressione ideativa che lo conduce  alla follia. Scopre di essere un altro per sua moglie, per i suoi compaesani. Di essere nel loro mondo come altro da se stesso. Altro per  gli altri, in balia dei loro sguardi. 

Per lo scrittore agrigentino l'esperienza dello sdoppiamento sperimentata da Moscarda aveva costituito per più di un decennio l'orizzonte della sua quotidianità. Non si spiega il pirandellismo con la follia della moglie, ma neppure si può venire a capo dell'opposizione vita-forma, realtà e sua rappresentazione, persona e personaggio, senza passare attraverso la stretta dei nodi biografici, il rapporto col padre Stefano, con sua madre Caterina e con la moglie. Tutte relazioni intrise di una profonda sicilianità, di quella sicilianità che Denis Mac Smith avvertiva negli sguardi dei siciliani. Nel loro modo di guardare. 
Si potrebbe sostenere che il grande tema sul quale si è ininterrottamente esercitato Pirandello  sia il tema dello sguardo, della fallimentare dialettica degli sguardi. L'antitesi infatti, il mancato riconoscimento della realtà dell'altro, della sua soggettività, del suo essere il centro di un altro mondo nel quale appaio come un'immagine, questo scacco innesca nei personaggi di Pirandello un deragliamento esistenziale che finisce spesso per rovesciare la gerarchia fra l'essere e l'apparire, che moltiplica all'infinito disgregandola la loro identità e  costruisce un sistema di relazioni dove dominano l' incomunicabilità ,  un sostanziale solipsismo, il  relativismo cognitivo, ma soprattutto scontro dove tutti rimangono sconfitti, dove l'agorà, il luogo dell'incontro,  della costituzione della comunità, si trasforma  nello spazio ambiguo, teatrale dove tutti sono attori e spettatori, dove cercare una verità comune, un mondo comune, è vano.  
Riconoscere di essere altro per gli altri, riconoscere la realtà degli altri, la premessa stessa delle relazioni sociali, appare insomma allo scrittore di Girgenti  problematico, dubbio, paradossale. 
Non solo a lui, ovviamente. Da Schopenhauer che il giovane Pirandello aveva avuto modo di leggere in tedesco, a Bergson alla cui filosofia è stato spesso accostato, a Nietzsche che D'Annunzio aveva malamente divulgato negli ambienti letterari italiani, il senso dell'ottimismo ottocentesco sulle 'magnifiche sorti e progressive' era tramontato con il chiudersi del secolo. La guerra avrebbe travolto e definitivamente distrutto gli schemi  di una  modernità di stampo positivista, tutta scienza, progresso e liberazione sociale. Freud, le avanguardie, e Proust, Joyce, Einstein, Husserl, Sartre,  la fisica quantistica: era tutto un mondo, un cielo che si rivelava di cartapesta e che veniva squarciato, che bruciava nel primo trentennio del secolo. Pirandello portava assieme a tanti altri la sua torcia accesa. Intellettuale europeo, 'universale' Pirandello dunque, senza dubbio. 
Eppure in quella dissoluzione della relazione sociale, in quel mancato riconoscersi degli sguardi, c'era e c'è ancora molta sicilianità, molta agrigentinità. 
Cento anni dopo la sua nascita la frana del 1966 lo avrebbe confermato.