GIOVANNI, IO VORREI CHE TU PEPI ED IO lettere di Tano Siracusa e di Pepi Burgio

Caro Giovanni, può capitare di ricevere una lettera da un amico che ti autorizza a farne l’uso che credi. Mi sembra che l’uso migliore che possa fare di questa lettera di Giuseppe Burgio sia di pubblicarla.

Tano

 

Carissimo Tano,

come sicuramente sai, da qualche tempo autorevoli studiosi sostengono il carattere cognitivo che rivestirebbe la letteratura. Tale punto di vista è declinato attraverso argomentazioni che attengono a diverse sensibilità nonché ad alcuni approcci scientifici; tale punto di vista, inoltre, reca, più o meno direttamente, nei suoi fondamenti, il nobile sostegno di alcune importanti filosofie del ‘900.

Da molto tempo mi sembra di toccare con mano la verità di questo assunto, senza tuttavia debordare dall’ambito di esperienze personali, le mie, frutto di ipotesi associative, relazionali, ovviamente prive di scientificità. Ma forse di qualche utilità didattica. Per sfuggire talvolta all’aridità del lessico filosofico, alla legnosa rigidità dei suoi concetti e, perché no, per consegnare il senso autentico delle avventure del pensiero alla limpida, fascinosa bellezza di cui trabocca la grande letteratura.

Di recente ho letto Pian della Tortilla di Steinbeck, nella traduzione superbamente infedele di un Vittorini che si sovrappone al testo originale con felicissima, poetica, disinvoltura. Nel capitolo sedicesimo, il penultimo, Steinbeck-Vittorini descrivono gli adorabili ed ingenui straccioni perdigiorno amici di Danny, intenti, nell’amoroso tentativo di sospenderne o alleviarne la catatonica tristezza, ad organizzare una grande festa del vino a cui parteciperà l’intera Pian della Tortilla. Che di lì a poco, dopo una strabiliante, eroica performance danzatoria, trapassò da questa vita, dopo un breve periodo vissuto astrattamente, dice Vittorini, attestando ancora una volta la predilezione per il termine. “Grande festa fu! Nessuno mai pensò di poterne dare una migliore. Per giorni e giorni venne decantata come la festa più bella che si fosse mai data al Pian della Tortilla e forse del mondo intero. Chi degli uomini che vi presero parte ne uscì senza un livido, un taglio, un segno qualunque di gloria? Mai si ebbero tante risse in una volta come quella sera: e non risse tra due, non duelli, ma mischie torreggianti di uomini a dozzine ognuno dei quali combatteva contro tutti. E le risate delle donne, ah quelle! Alte e sottili e acute e fragili come vetro filato. E gli strilli di protesta della limitrofa ravina! Padre Ramon non sapeva credere alle proprie orecchie la settimana dopo, in sede di confessione. L’anima gaudente di Pian della Tortilla si spogliò di ogni ritegno e salì intera su dalla terra, estatica unità, a volteggiar per l’aria. Ballarono uomini e donne con impeto tale che il pavimento sprofondò in un angolo. Le armoniche vennero suonate con tale energia che poi rimasero sfiatate per sempre.”

Non è forse utile leggere questa pagina per rinforzare il concetto nietzscheano di dionisiaco? O, se si vuole, per colorire con qualche spregiudicatezza filologica, e non solo filologica, l’immagine a cui ricorre Bloch nel rappresentare la dialettica hegeliana come “il trionfo bacchico in cui non v’è un membro che non sia ebbro”?

Passando poi, come si usa dire, di palo in frasca, ma sempre in relazione all’attualità dell’eccitazione commossa che mi ha suscitato Pian della Tortilla, vorrei farti omaggio di questa straordinaria pagina che ha stretta relazione con quanto, forse in maniera opaca, ho inteso dirti qualche mese fa a proposito della musica nord americana.

“Dolores Engracia Ramirez abitava nella piccola casa all’estremo superiore di Pian della Tortilla. Essa lavava i piatti di diverse cucine di Monterey; così viveva. Non poteva dirsi bella, la paesana dalla faccia sparuta; ma aveva nelle forme un certo fascino di movimento, e nella voce una nota gutturale che molti uomini trovavano significativa; gli occhi suoi, infine, ardevano di dietro a una nebbia con una assonnata passione che quegli uomini stessi, tutti interessati alla carne, trovavano di grande attrattiva e insomma invitante. Nei momenti in cui si lasciava andare non era desiderabile, ma una combinazione di amabilità si formava in lei, dentro e fuori, tanto spesso che tutti la chiamavano Dolce Ramirez a Pian della Tortilla. Riusciva piacevole vederla quando la bestia muoveva in lei all’agguato. Come si torceva allora, contro il cancello del suo giardino! E la sua voce, come faceva le fusa! E i suoi fianchi, come si agitavano mollemente ora innanzi, ora indietro con la regolarità di un’onda sulla spiaggia! Nessun’altra al mondo avrebbe saputo metter fuori più segreta seduzione di lei quando diceva: Ai, amigo, a’onde vas?”.

 

Buon anno,

Pepi.