TERRAVECCHIA. I TESORI SALVATI DALLE RUSPE di Beniamino Biondi

Se fotografare significa appropriarsi della cosa che si fotografa, stabilendo con il mondo una relazione particolare di conoscenza, ciò è accaduto in queste ore proprio guardando alcune immagini scattate intorno al cantiere del progetto Terravecchia, nel cuore del centro storico, a pochi passi da Santa Maria dei Greci, in quel segmento di Agrigento che si è dato alla storia come uno dei più antichi e straordinariamente fecondi di bellezza. Il passaggio dalle semplici descrizioni letterarie o di memoria all’evidenza documentaria delle immagini ha prodotto numerosi interventi sui social network che si interrogano, ognuno con la propria opinione, sul futuro della città e sulla sensatezza o meno di un certo tipo di interventi di recupero del centro storico e di ridefinizione dei suoi spazi e delle sue direzioni. Ciò che è visibile nelle immagini è possibile leggerlo in un prezioso e bell’articolo di Mauro Indelicato sul sito Infoagrigento, dove si parla proprio dei rinvenimenti accaduti nel quartiere dopo anni di incuria e di abbandono: un ipogeo, un bellissimo pozzo, i resti di una chiesetta, i locali ad ampio arco di un lavatoio con alcuni dei suoi pavimenti ancora intatti. Una sorta di emersione fatidica di un patrimonio nascosto per decenni che vede la luce oggi, in una stratificazione che si è fatta deposito di secoli di storia urbana, radiografia involontaria e sublime di una città inghiottita da una modernità straziata dalla bruttezza e dalla sciatteria del suo presente.

Si ha contezza, oggi, di questo patrimonio, anche grazie alla numerose battaglie condotte per la salvaguardia del centro storico, alcuni chiedendo a gran voce le ricognizioni archeologiche e l’analisi del fragile tessuto ipogeico della città, con una partecipazione autentica di interesse diffuso anche tra chi non vive e poco conosce il cuore antico della città. Grazie a queste battaglie, pare che – in riferimento all’area di fruizione pubblica del progetto – saranno modulate assai diversamente le tipologie di intervento, declinandole alle ultime scoperte del sito. Quanto accaduto in queste ore dimostra che non vi è stata molta prudenza da parte dei proponitori dell’opera, che l’hanno così affrettata, e che molto probabilmente sarebbe stato necessario da parte di coloro che hanno portato avanti un discorso informato alla prudenza e alla prevenzione, una maggiore energia nel portare avanti questa linea, che oggi per allora si dimostra vincente. Va da sé che alla luce dei ritrovamenti il prosieguo dell’intero intervento va filtrato e determinato dalla Soprintendenza, la quale si deve assumere la paternità culturale e archeologica delle scelte da compiere e delle aggiustature, se necessario radicali, da proporre. Trattandosi di proprietà pubblica, tanto dell’intera area quanto delle emergenze che stanno venendo fuori, la Soprintendenza è tenuta ad operare non con misure genericamente tutorie, ma ad assumere e se è il caso ad imporre provvedimenti atti alla conservazione dell’intero complesso.

Queste immagini pongono soprattutto una questione più seria, non difficilmente opzionabile, su un dato di realtà che non si può dimenticare, perché questi luoghi possono costituire un’occasione preziosa per Agrigento come pure l’azzardo di una sua ulteriore violazione. Dico questo perché, sull’evidenza di quanto emerso, ci si dovrebbe chiedere quanto ancora potrebbe emergere, quanto si potrebbe dare alla luce ciò che è stato sepolto dal tempo, quanto ancora si dovrebbe comprendere della tessitura sotterranea degli ipogei (quello rinvenuto sembra addirittura che possa condurre al di sotto di Santa Maria dei Greci), quanto altrettanto l’incuria della coscienza rischia di sottostimare i benefici che la semplice bellezza delle cose produce e riverbera nel tempo. Mi sono posto queste domande anche di recente, sul terrazzamento che andrebbe liberato sulla Porta di Mare, altro scrigno a falde dei tesori di questa città, come anche per numerosi altri quartieri e angoli ventrosi di tutto il centro storico.

Non è certo mia intenzione coltivare posizioni talebane, che invalidano il presente, né forme romantiche di memoria, che negano il futuro, ma certamente le domande che ognuno di noi si pone debbono avere la conseguenza di una direzione e delle azioni necessarie che la definiscono e la avvalorano. È evidente che sotto la città attuale vi sia un intero paesaggio della storia, ed è altrettanto evidente che ciò si potrà soltanto immaginarlo e non più scoprirlo, ma il crollo dello Schifano offre l’occasione di riflettere ancora di più sui rischi di certi interventi, che, se non ben guidati e corretti, possono darsi a una violazione inammissibile della nostra collina.

È necessario intervenire, laddove ancora possibile e concesso, affinché all’idea di nuove costruzioni si sostituisca la prassi del recupero dell’esistente, rinunciando a scelte che quando non sono di deliberata incuria muovono ad una vera e propria aggressione della città, ricostituendo nuove comunità che sappiano integrare e tutelare spazi urbani e contesti sociali. I movimenti di opinione e le associazioni debbono proseguire con il compito che si sono già dati in un giudizio sereno che abbia però il coraggio di incidere su scelte e orientamenti altrove stabiliti, soprattutto alla luce degli ultimi rinvenimenti, in un percorso il più possibile collaborativo e schietto con l’amministrazione, chiedendo che l’area in questione sia ancora di più e meglio scandagliata e nel tempo valorizzata e resa fruibile. Non semplice tutela che rischierebbe di rendere il centro storico uno scheletro di storia passata, ma piena valorizzazione nel riconoscimento di tracce che possono costituire occasione per un’immagine del centro storico più attraente che conquisti i visitatori di Agrigento e gli stessi cittadini al ritorno in città, nell’idea che l’antico non sia l’impedimento al nuovo e che le occasioni di recupero non siano pretesti scenografici per un corollario più suggestivo a nuove costruzioni in cemento armato.