ANIMA, LE PAROLE PER DIRLA di Pepi Burgio

L’anima, fa dire Robert Musil ad uno dei personaggi de L’uomo senza qualità, è quella cosa che scappa a rintanarsi quando sente parlare di serie algebriche. Forse anche allo spirito accade qualcosa di simile. Da tempo, termini come anima, come spirito rischiano di rimanere sepolti dalla polvere dell’oblio. E la difficoltà che s’incontra nel tentare di definirli puntualmente, fa il paio con la loro inattualità. Anima e spirito non hanno più corso legale; così come onore, tradizione, gerarchia, coraggio. Tutta roba inservibile, se non per il trastullo di qualche testa rasata e vuota.

Eppure, davvero incredibile, già nel settembre del 1951, Anna Maria Ortese sul Corriere di Napoli, con stupefacente lucidità e inconsapevole preveggenza, tratteggiava nitidamente i contorni di un quadretto destinato a riproporsi presso le numerose terrazze del paese nei decenni successivi. Leggiamo: Più volte, in questi ultimi anni, mi è accaduto di dover pronunciare la parola “spirito”, e di vedere improvvisamente sul volto dei circostanti, gente di alta o media cultura, apparire una contrazione, se non addirittura una smorfia, di irritazione o sospetto, che facilmente diventava aggressiva.

Invitata a chiarire il significato che davo a questa parola, trovavo che alcuni, immaginando che io mi dibattessi in difficoltà verbali, cortesemente mi venivano incontro, sollecitando una spiegazione naturista, che non avevo affatto in mente, mentre altri, più intelligenti, o avendo subito compreso ciò che con questa parola intendevo dire, mostravano apertamente la loro indignazione; e, in breve, sia gli uni che gli altri mi accusavano delle cose più strane: ora di non essere al corrente delle ultime scoperte della scienza, ora di non aver tenuto conto degli ultimi capitoli della filosofia, ora, e adopero le parole precise dell’ultima accusa, di adoperare termini che non hanno più alcun senso nella lingua italiana, come in qualsiasi lingua moderna.

Li vedo con nettezza, come in un film in bianco e nero appena restaurato. I volti ostili ad Anna Maria Ortese mi sembra somiglino un po’ a quelli irrevocabilmente scolpiti, quasi vent’anni dopo, nella loro devastante adesione alla liturgia consumistica, da Pier Paolo Pasolini. Essi mi appaiono come archetipi, antenati, degli altri: pavidi, incerti, disperati. Quest’ultimi, inconsapevolmente disperati, con il loro occhio cattivo si renderanno di fatto osceni artefici del genocidio culturale da cui la società italiana non si è più riavuta. 

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