IL '68, UN MITO DA SFATARE di Pepi Burgio

Stesso giorno, stesso giornale, diverse soltanto le pagine, per una fortuita coincidenza il Corriere della sera ha pubblicato due interventi, che un tempo sarebbero stati bollati come anticomunisti e, di conseguenza, viscerali. Il primo è di Aldo Grasso, che nella sua rubrica Padiglione Italia, sotto il titolo Capanna, il sessantotto come professione, stigmatizza le parole che questi ha usato con tono sarcastico nei confronti del neo premier Paolo Gentiloni, un tempo, nel secolo scorso, nella temperie di anni formidabili, sodale dell'illustre reduce. Così aveva detto Capanna di Gentiloni:Quantum mutatus ab illo! Ormai è il clone di Renzi. Che parabola per chi ha fatto il sessantotto”. Per concludere che “Roma è corruttrice.” Così commenta Aldo Grasso: “Vietato cambiare idea, vietato crescere, vietato pensare con la propria testa: per essere duri e puri bisogna fermarsi all'immutato '68, soggiacere a quel mito di verginità. Ma non tutti possono viverci di rendita”.

Sempre sul Corriere, in una bella intervista di Aldo Cazzullo, Enzo Bettiza, quasi novantenne, con poche, rapide pennellate tratteggia alcuni contorni dei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale, ricostruiti attraverso il ricordo dei contatti diretti con i più importanti personaggi del tempo, osservati con la lente del grande inviato. In questa intervista Bettiza puntualizza, ridimensiona, liquida una serie di mitizzazioni, alcune residuali, altre dure a morire, che continuano però nel complesso a godere di discreta salute. Alcuni esempi. Primo: Montanelli “era convinto che la rivolta di Budapest si dovesse a operai che volevano il vero socialismo; mentre fu una rivolta nazionalista e antisovietica. E i russi, incoraggiati da Togliatti, impiccarono Nagy, per sostituirlo con il suo amico Kadar, ex dissidente. Che accettò, nonostante il capo della polizia politica Farkas, per umiliarlo, gli avesse pisciato in bocca. Questo era l'homo sovieticus”.

Secondo esempio. Ad una domanda su Chruščëv, Bettiza ha così risposto: “Un contadino ucraino che giocò il sopravvalutato Kennedy. Gli eresse il Muro sotto il naso ed evitò la guerra nucleare, nonostante Castro lo sollecitasse: era pronto a veder distrutta Cuba pur di distruggere l'America”.

Anche Massimo Recalcati, in un saggio molto interessante sull'erotica dell'insegnamento di un paio di anni fa, ha però proposto una rappresentazione caricaturale, fuorviante, della scuola anteriore al '68, affermando che “il modello pedagogico prevalente era quello correttivo-repressivo”, e “il rapporto tra insegnante ed alunno fortemente gerarchizzato”. In un simile contesto “gli studenti – dice ancora Recalcati – sono carne trita, prodotta dai congegni repressivi di un'istituzione dall'anima fascista”. Come mai una personalità di così alto valore scientifico, in particolare sul versante psicologico-psichiatrico, si è fatta imprigionare da uno schema tanto marcatamente vittimista, atteggiamento mentale su cui la psicanalisi ha prodotto una cospicua letteratura? E come conciliare la bella dedica del libro “Alla maestra Raffaella Cenni, che ha saputo amare chi impara”, con l'affermazione secondo cui la scuola, ovviamente prima dell'anno fatidico, è istituzione “solida, piramidale, panottica”, ovverossia, ancora una volta, “dall'anima fascista”? Forse perché non riusciamo a vivere se non piegando la realtà alle sue forme simboliche; forse perché la nostra identità si struttura mediante l'adesione graduale a miti fondativi e sembra che senza di essi ci avvertiamo come mutilati, come orfani. I miti, però, andrebbero ogni tanto demitizzati, o diversamente declinati, ad evitare che la loro narrazione venga assunta dogmaticamente.

Nel 1971, profeticamente, nel drammatico componimento intitolato La poesia della tradizione, Pier Paolo Pasolini, che già sull'argomento aveva speso parole scandalose tre anni prima in occasione degli scontri di Valle Giulia, così diceva, prima ancora che il mito del '68 fosse stato costruito compiutamente:

Oh generazione sfortunata!

Cosa succederà domani, se tale classe dirigente –

quando furono alle prime armi

non conobbero la poesia della tradizione

ne fecero un’esperienza infelice perché senza

sorriso realistico gli fu inaccessibile

e anche per quel poco che la conobbero,

dovevano dimostrare

di voler conoscerla sì ma con distacco, fuori dal gioco.

Oh generazione sfortunata!

che nell’inverno del ’70 usasti cappotti e scialli fantasiosi

e fosti viziata

chi ti insegnò a non sentirti inferiore –

rimuovesti le tue incertezze divinamente infantili –

chi non è aggressivo è nemico del popolo! Ah!

I libri, i vecchi libri passarono sotto i tuoi occhi

come oggetti di un vecchio nemico

sentisti l’obbligo di non cedere

davanti alla bellezza nata da ingiustizie dimenticate

fosti in fondo votata ai buoni sentimenti

da cui ti difendevi come dalla bellezza

con l’odio razziale contro la passione;

venisti al mondo, che è grande eppure così semplice,

e vi trovasti chi rideva della tradizione,

e tu prendesti alla lettera tale ironia fintamente ribalda,

erigendo barriere giovanili contro la classe dominante del passato

la gioventù passa presto; oh generazione sfortunata,

arriverai alla mezza età e poi alla vecchiaia

senza aver goduto ciò che avevi diritto di godere

e che non si gode senza ansia e umiltà

e così capirai di aver servito il mondo

contro cui con zelo «portasti avanti la lotta»:

era esso che voleva gettar discredito sopra la storia – la sua;

era esso che voleva far piazza pulita del passato – il suo;

oh generazione sfortunata, e tu obbedisti disobbedendo!

Era quel mondo a chiedere ai suoi nuovi figli di aiutarlo

a contraddirsi, per continuare;

vi troverete vecchi senza l’amore per i libri e la vita:

perfetti abitanti di quel mondo rinnovato

attraverso le sue reazioni e repressioni, sì, sì, è vero,

ma sopratutto attraverso voi, che vi siete ribellati

proprio come esso voleva, Automa in quanto Tutto;

non vi si riempirono gli occhi di lacrime

contro un Battistero con caporioni e garzoni

intenti di stagione in stagione

né lacrime aveste per un’ottava del Cinquecento,

né lacrime (intellettuali, dovute alla pura ragione)

non conosceste o non riconosceste i tabernacoli degli antenati

né le sedi dei padri padroni, dipinte da

-e tutte le altre sublimi cose

non vi farà trasalire (con quelle lacrime brucianti)

il verso di un anonimo poeta simbolista morto nel

la lotta di classe vi cullò e vi impedì di piangere:

irrigiditi contro tutto ciò che non sapesse di buoni sentimenti

e di aggressività disperata

passaste una giovinezza

e, se eravate intellettuali,

non voleste dunque esserlo fino in fondo,

mentre questo era poi fra i tanti il vostro dovere,

e perché compiste questo tradimento?

per amore dell’operaio: ma nessuno chiede a un operaio

di non essere operaio fino in fondo

gli operai non piansero davanti ai capolavori

ma non perpetrarono tradimenti che portano al ricatto

e quindi all’infelicità

oh sfortunata generazione

piangerai, ma di lacrime senza vita

perché forse non saprai neanche riandare

a ciò che non avendo avuto non hai neanche perduto:

povera generazione calvinista come alle origini della borghesia

fanciullescamente pragmatica, puerilmente attiva

tu hai cercato salvezza nell’organizzazione

(che non può altro produrre che altra organizzazione)

e hai passato i giorni della gioventù

parlando il linguaggio della democrazia burocratica

non uscendo mai della ripetizione delle formule,

ché organizzar significar per verba non si poria,

ma per formule sì,

ti troverai a usare l’autorità paterna in balia del potere

imparlabile che ti ha voluta contro il potere,

generazione sfortunata!

Io invecchiando vidi le vostre teste piene di dolore

dove vorticava un’idea confusa, un’assoluta certezza,

una presunzione di eroi destinati a non morire –

oh ragazzi sfortunati, che avete visto a portata di mano

una meravigliosa vittoria che non esisteva.