L'ATTESA (Racconto breve) di Tano Siracusa

Da qui le cose si vedono diversamente. Non è facile spiegare come adesso possa disporre di questo mio diario, anche se   in realtà  è molto semplice.
Semplice, ma anche inessenziale.

***

Nella settima strada ogni sera c’è un uomo fermo all’angolo con Place Kennedy. Dalle sette alle otto. Lo osservo dalla finestra del mio appartamento al primo piano, immobile nel flusso della città, nelle prime luci  accese contro il cielo che sembra già di petrolio.
Oppure  mentre aspetto il verde del semaforo dal marciapiediedi opposto, e lui è un po’ curvo, infagottato in uno scialle come  un berbero attorno all’oasi di Erfoud o come soltanto un vecchio malandato può permettersi di fare al centro di Star City. Quando  finalmente attraverso la strada  e guardo nel visore della piccola videocamera che tengo in mano, nel palmo della mano,   lo vedo ingrandire a strappi, a sbalzi, e ringiovanire come in un sogno; fino a quando per un attimo   incrocio il suo sguardo sul volto  asciutto, rasato, che mi scruta come un gatto, ed  è un viso pieno di angoli,  piccolo, come strizzato da quello  che sembrava uno scialle  ed è  invece una felpa azzurra avvitata intorno al collo, che potrebbe essere un indumento firmato, da snob, pulito e stinto.

Non avrà quaranta anni e potrebbe essere   un pittore, un artista, potrebbe essere un polacco o un ungherese, ma l’unica cosa certa é che ogni   sera  rimane   dalle sette alle otto  accanto al semaforo dove   una piccola folla si raccoglie e si sgrana  all’alternarsi del segnale luminoso, come per una pulsazione meccanica che la governa. 
Da casa mia a volte lo  inquadro con il teleobiettivo, utilizzando il cavalletto. Non posso permettermi ottiche di grande qualità. Nel visore il suo volto appare sgranato, evanescente, immerso in un pallore opaco o attraversato dal guizzare di colori bruciati, incandescenti. Ho deciso che si chiama J..
Sembra che osservi prevalentemente il marciapiedi opposto, la piccola folla che si raccoglie attorno al semaforo e che compattamente si muove all’improvviso nella sua direzione. 

Da tre settimane non vedo più gli amici della strada, neppure quindi la magra cassiera del supermercato che corteggiavo in modo contorto e inconcludente. Ho cambiato edicola e itinerari, adesso attraverso la città in direzione nord, verso il parco dei cigni. Mi attardo di sera nei locali di calle Borges, in un barrio frequentato quasi esclusivamente da portoricani, pigri giganti obesi che allungano da sotto le visiere dei loro berretti da baseball sguardi lenti e assonnati, forse sospettosi.  
Quante carte hai in tasca?  mi  ha chiesto in spagnolo uno seduto al tavolo accanto, in un locale che tre piccoli fari verniciavano assurdamente di un rosso sulfureo, da vecchio bordello. Ho solo qualche poesia, ma non vale niente, ho risposto. Avevo anche la videocamera dentro la borsa di cuoio che tenevo a tracolla, una borsa da portalettere.
Poi la sera scende dai grattacieli della nona strada scivolando sui vetri delle finestre, scende giù come una colata di lava nera, si allunga densa fino al marciapiedi dove una donna   intrattiene uno sparuto pubblico di balordi. Le passo accanto nel controluce dei lampioni guardando nel visore della videocamera l'inquadratura obliqua  di un lungo volto da cavallo, la grigia, crespa criniera che costituisce il particolare più femminile della  sua faccia scaltra, da folle. E’ una donna ma sembra un uomo o un cavallo. Ha l’autorevolezza di una conferenziera   più che di una pazza ispirata. La osservano all'ombra dei salici come si potrebbe guardare un nano che suona la fisarmonica con la scimmietta in spalla, come un qualunque spettacolo insulso e malinconico, soppesato  dalla scrupolosa e scettica attenzione di chi pensa di averne viste tante.
Avrei potuto farlo anche io penso affacciandomi alla finestra della mia stanza al terzo piano di via Madrid. Scegliermi un angolo della città e provare a spiegare qualcosa a quelli laggiù che attraversano veloci la strada, come se sapessero dove andare, o in attesa del  comando di un semaforo. Non lo sanno. Credono di  conoscere la direzione giusta, ma non hanno idea su dove sia. A volte vanno indietro  come in un film à revers e non se ne accorgono, come automi. 
Non avrei  avuto molte cose da dire, nessuna davvero importante, è innegabile. Neppure io conosco la direzione, quella giusta.  
Pochissimi sanno quale sia, ma  non riescono a farsi ascoltare, a spiegarsi, oppure semplicemente sono troppo lontani. C’è una distanza infinita fra i pochi che sanno, gli illuminati, e la grande, sterminata massa di coloro che non sanno, che attraversano le strade della città come se fossero ciechi, come se un cane o un angelo ubriaco governasse i loro passi senza meta. 
In mezzo ci sono io, che da tre settimane vagabondo tutto il giorno in quartieri sconosciuti ma che riconosco i pochissimi che sanno,  quelli che indicano la strada e non vengono ascoltati, gli eletti. E’ per questo che mettono le bombe. Per farsi ascoltare, per annullare la distanza che li separa dalla folla,  sopra il rumore della folla, e poi per farsi capire.
Solo pochi conoscono la direzione e la strada, e sono piene di violenza e di dolore. Io ascolto chi mi indica la direzione,  lo seguo senza fare domande. E aspetto.

All’inizio pensavo che anche lui aspettasse qualcuno, ho immaginato un appuntamento, magari un po’ vago, approssimativo, ma poi ho capito che se anche aspetta qualcuno, non arriverà mai. Forse aspettava come me un segnale, una parola, un comando, ma ho capito che per lui non arriverà.  
Evito di andare nei caffè, nei supermercati e nei locali dove potrei incontrare gente che conosco. Non parlo con nessuno, raramente mi capita di scambiare qualche frase. Durante il giorno a volte immagino di ascoltare il suono della mia voce. 
A Star City non è difficile rimanere da soli, la città è una somma di piccole città, tante periferie che sono come tante città satellite, relativamente autonome. La città ha perso a poco a poco il suo centro che ormai è abitato prevalentemente da messicani e indios ed è diventato a sua volta una piccola città malandata e periferica, sporca e rischiosa di notte come i barrios orientali.   
 Molte case non sono abitate da venti o trenta anni, ci sono stati dei crolli che le autorità comunali non hanno rimosso e dove si sono trasferite colonie di gatti e qualche vagabondo. 
Io abito adesso ai margini di questa vecchia città parzialmente in disuso.
Nessuno di quelli che frequento di solito si fa  vedere da queste parti dove spesso mi perdo, non so più dove mi trovo. Allora, se è giorno, cerco la  prima stazione del metrò e scendo ad una fermata  lontana, una qualunque.
Mi sembra di avere diviso la mia vita in due parti. Nella precedente avevo molti amici e poche donne, mai abbastanza. Ogni tanto penso a loro, ai pomeriggi passati nei caffè, alle ragazze che la davano per un paio di dosi, al vecchio Manuel che diceva sempre di dover partire e non partiva mai.  
Adesso entro in un caffè qualunque, ordino un rum, mi guardo un po' attorno e accendo la videocamera che sembra un giocattolo, un piccolo cubo nero e cieco.  Poi, quando rientro a casa osservo le riprese con attenzione e le cancello quasi tutte. Le poche che salvo le monto su una musica di Philip Glass. Vorrei farne un video,l’ultimo, lo intitolerei ‘Un sogno’. 
Ciò che non sopportavo era la lucidità, quella consapevolezza del tempo che passa e che quasi mai permette di coincidere con il presente.  Lo dicevo agli amici, a qualche donna  che  incontravo e perdevo quasi subito.  
A volte  sconfino nei quartieri settentrionali dove si favoleggia che gli uomini un tempo non tanto remoto facessero l’amore con le bestie, capre, mucche, galline, cagne. Laggiù le case sono basse, spesso sono dei parallelepipedi bianchi con due finestre senza persiane ai lati, come grandi orbite vuote, e la piccola porta blu al centro della facciata d’ingresso. Le uniche bestie in giro sono i gatti e i cani, che vanno  a branchi e mostrano una grande confidenza con i passanti, e qualche asino. In questa zona di Star City dove abitano prevalentemente ucraini di seconda generazione, molti arabi e una diffusa colonia di prostitute messicane, di sera c’è una grande animazione e si parla una lingua piena di vocali  e doppie consonanti, stranamente musicale. 
Non dicono ‘mettere sotto il letto’ ma ‘abburrucanu’, non dicono ‘non devi seccarti’  ma ‘un’t’annichiari’.  Le sue vie sono come un labirinto. 
Qui i turisti non vengono, hanno paura.Io faccio finta di essere un turista, uno di quelli che riprendono con le loro videocamere tutto quello che capita di vedere. 

 

Ieri ha fatto buio all’improvviso. Non guardo più gli orologi, mi regolo con la luce o con i programmi di una radio di cui conosco l’intero palinsesto. Davano un concerto di un trombettista jazz ieri sera, un islandese, e mentre un suo assolo si spegneva su una nota bassa e dondolante mi sono accorto che era buio. Saranno state le sei e mezzo ed era buio profondo, e allora ho pensato che  che  fra un po’ sarebbe arrivato J.. E’ stato allora che  ho ricordato il  sogno.
Nel  sogno l’attesa era finita. Avevo ricevuto il messaggio e l’uomo era lui. Era J. che dovevo incontrare. L’uomo che aspettava davanti il semaforo sotto casa mia aspettava me: era a lui che dovevo consegnare il pacco.  
Nel sogno ho visto  il giallo che lampeggiava, la strada vuota, solo automobili che scivolavano lente.  Poi il disco verde ha comandato la piccola folla, il suo passo cadenzato che era il mio passo e quello di tutti, della immensa folla di quelli che non sanno, non hanno idea di quale sia la direzione. Non guardavo più J. nel visore della videocamera, lo vedevo immobile ma sempre più vicino che mi fissava  con stupore, come se non si aspettasse il  mio arrivo,  come se non avesse ancora capito che ero io quello che lui aspettava.  E che anche per lui l’attesa fosse  finita.
Poi non c’è stato nulla, solo la bomba, un grande e silenzioso  bagliore. 
Mi sono affacciato alla finestra pensando a quel sogno e J. era al suo posto.