EN ATTENDANT SILENCE. IO E I MIEI GESUITI di Giandomenico Vivacqua

Nella speranza di poter vedere presto anche ad Agrigento Silence, il film di Martin Scorsese sulla durissima repressione subita dai missionari gesuiti in Giappone, tra la fine del XVI e il principio del XVII secolo – pellicola che già da alcune settimane è in sala in molte città italiane – ripenso al periodo in cui ho frequentato, da convittore, il collegio universitario ignaziano di Casa Professa, chiuso ormai da diversi anni, ufficialmente perché il comune di Palermo ha rivendicato lo storico immobile che lo ospitava.

Al piano di sotto sono rimasti, almeno per ora, i padri: sempre di meno, sempre più annosi. Ricordo padre Ajello, il vulcanico rettore della leva precedente alla mia, già infermo, accudito silenziosamente dai confratelli, fino alla fine.

Ricordo padre Taormina, il mio rettore, un’apparenza severa imposta dal ruolo ma che s’addolciva a pranzo e a cena, quando, con delicato gesto eucaristico, versava la debita quantità di vino nel bicchiere dei suoi commensali.

Ricordo padre Neri, dottissimo e carismatico, animatore di conferenze vertiginose sui misteri della fede.

Ricordo padre Lo Conte, uno psicologo clinico che aveva imparato l’inglese alla perfezione ascoltando la Bbc e che disbrigava, senza complessi, incarichi attinenti al governo della comunità.

Ricordo un padre di cui non ricordo il nome, rientrato dal Madagascar dopo oltre trent’anni di missione, che sulla porta della sua cella aveva scritto: “Giungla africana”.

Ricordo che i miei gesuiti non negavano il diritto al confronto, mai a nessuno: agli scettici, agli eterodossi, ai disillusi, ai marxisti e agli antagonisti di qualunque estrazione. Offrivano, sovente, occasioni di confronto e di dialogo e mai una volta che li abbia visti scadere nel proselitismo. Sorprendeva la radicalità del loro umanesimo, l’universalità del loro sguardo. Raramente ho conosciuto critici più acuti ed attrezzati dell’etnocentrismo culturale e del liberismo economico. In molte occasioni superavano a sinistra i più sinistri, e con migliori argomenti.

Non erano tutti uguali, certo, ma in ciascuno si coglieva, più o meno evidente, il riflesso del sogno di febbre del soldato convalescente che li fondò. Erano, fino all’ultimo respiro, compagni di battaglia di Cristo.

Parlo al passato, perché parlo dei miei ricordi. Non so, non ho indagato, in che rapporto siano questi ricordi con la realtà, con l’attualità, e non voglio farlo.

Io e i miei gesuiti insieme stiamo e insieme cadremo, come le nostre illusioni. Ma almeno consolati dalle parole finalmente cristiane di un figlio di immigrati venuto dalla fine del mondo, soldato anche lui.

Un po’ dappertutto nei tribunali, negli ospedali, nelle amministrazioni pubbliche della Sicilia occidentale si trovano gli ex allievi del convitto. La polvere dei secoli li sbianca più in fretta di quanto non fosse prevedibile. Alcuni hanno fatto sfolgoranti carriere: da primario, da ingegnere capo, da principe del foro di provincia. Altri coltivano segrete malinconie, senza troppo costrutto.

 

 

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