CARO GIANDOMENICO, NE' REDUCI NE' POSTERI di Giovanni Taglialavoro

Andando in piazza dal ridotto di via Saponara, scivolando lungo la via Bac Bac, poco dopo l'Ecce Homo, imboccando via Atenea, si incontrava il circolo dei Combattenti e Reduci.

I soci erano più spesso fuori che dentro, seduti accanto al bar Pedalino a guardare lo struscio della via Maestra, in attesa di qualcuno cui narrare l'epopea della guerra da poco conclusa.

Di tanto in tanto, quando lo stesso spazio non era occupato da gabbie di cardellini in vendita, veniva ad esporre i propri coltelli un ambulante con un banco verticale disposto sulla parete a fianco della farmacia Averna. Il presente, fatto di lame lucenti conficcate su incolpevoli patate, irrompeva sul passato. E così i reduci interrompevano i loro racconti e attraversavano il tratto di via Atenea che li separava dal banco per vedere da vicino la mercanzia e ragionare sulla congruità della sua funzione e dei relativi prezzi.

Una volta partecipai, bambino, ad una celebrazione del circolo: non ricordo nulla se non l'odore di quella stanza, di indumenti bagnati e fumo, e conservo una foto preziosa, quella che vedete sotto il titolo, di quella circostanza in cui sono ritratto, in giacca cravatta, penna nella tasca esterna sotto il bavero sinistro e pantaloncini corti d'ordinanza vicino a mio padre, combattente e reduce della Russia.

I racconti della ritirata dell'Armir che mio padre ci faceva mi appassionavano. Lui era stato lì, alpino della Divisione Julia, era riuscito a salvarsi perdendo però alcune dita dei piedi per congelamento.

Mio padre e il circolo dei reduci praticavano il culto della memoria, io bambino di otto nove anni ne assorbivo il fascino e la profondità e imparavo a disporre sull'asse del tempo i fatti che andavano a costituire il campo delle mie esperienze. Ma mio padre non fu solo memoria per me. Fu anche e soprattutto azione nel mio presente che era anche il suo. E per quanto via via si consolidasse in me una griglia autonoma, o presunta tale, di lettura del mio presente, mi sarebbe risultato impossibile fare astrazione di quanto sono venuto elaborando attraverso le discussioni e le esperienze fatte nell'interazione infragenerazionale con mio padre e i suoi coetanei. Il contatto coi reduci mi preparava a diventare erede.

E' vero ci sono elementi del nostro tempo, e un arco specifico del nostro tempo, che ci segnano più di altri. Ma intanto mi sembra improbabile definire una volta per tutti e per sempre quale sia questo arco: i primi 3 anni della nostra vita? L'adolescenza? un evento pubblico ( la guerra, il '68 …)? un incontro,un libro,un grande amore? E poi perché escludere l'ipotesi che la vita ci possa riservare ulteriori momenti fondativi di paradigmi?

“C’è un tempo per vivere e un tempo per scrivere, si potrebbe dire, tra Pirandello e l’Ecclesiaste. C’è un tempo per vivere il proprio tempo e ce n’è uno per sforzarsi di capire e di tramandare ciò che si è vissuto” scrive Giandomenico Vivacqua.

Elegante e misurato invito a non pretendere che il nostro 'io' sia la misura di ogni cosa, di uscire dall'adolescenza e provare a vedere le proprie visioni a fianco delle altre, delle tante altre, nel flusso della vita, di sottrarsi al fascino della parzialità che fa la storia e sollecita gli accadimenti per assumere un punto di vista, dice lui, 'inattuale'.

Non manca di bellezza questo approccio. Non manca neanche di potenziale efficacia conoscitiva e fattuale se è vero che a volte uno sguardo da straniero della realtà ci aiuta a svelarne meglio qualità e consistenza.

Avverto solo un rischio: che l' allergia al reducismo attivistico possa trasformare noi in posteri di noi stessi.