PERIFERIE, LUOGHI DELLA DECADENZA di Roberto Tripodi

L’interessante dibattito che sta prendendo forma su Suddovest, le tesi stimolanti proposte da Maurizio Iacono e Gioele Farruggia, mi spingono a chiedere ospitalità per esporre una riflessione. In verità mi sento parte in causa per aver progettato nel 1984 il Piano Particolareggiato di Montaperto e aver partecipato, nel 1972 al Concorso nazionale di Idee sul PRG di Agrigento (arrivammo secondi dietro il progetto Caronia). Anzi, partirei proprio da qui, dal nostro progetto di nuova città che doveva sorgere tra la collina di Girgenti e Porto Empedocle, mentre il progetto Caronia, destinato a vincere, sostenuto dai costruttori e soprattutto dai proprietari terrieri, prevedeva nove centri satelliti come espansione della città esistente, insufficiente a contenere la nuova edilizia e impossibilitata a espandersi nella Valle. Andò come sappiamo: l’amministrazione comunale e l’ufficio tecnico forzarono non poco i progettisti, al punto che Pippo Cangemi e Vincenzo Cabianca si dimisero, Caronia firmò lo stesso il progetto, alcuni proprietari terrieri e alcuni costruttori si arricchirono, Agrigento si trasformò in un’immensa periferia, con l’aggravante che il trasferimento della popolazione, a Villaseta, S. Michele, Villaggio Mosè, S. Leone, Fontanelle, S. Gisippuzzu, Spinasanta, Madonna Delle Rocche, Cannatello, causò l’abbandono e l’obsolescenza del Centro Storico. Io ero reduce da una esperienza biennale ad Algeri che indirizzava l’espansione edilizia concentrandola in particolare verso le emergenze universitarie tra cui l’Université des Sciences progettata da Oscar Nimeyer e dall’esperienza quadriennale a Sondrio, che aveva progettato la propria espansione attorno ad una piastra commerciale, concentrando l’intervento all’interno dell’argine dell’Adda. Dal 1980 al 1987 vidi quindi in diretta la creazione della grande periferia agrigentina, complicata dal fatto che in 7 anni sorsero, per una popolazione di 50.000 abitanti, ben 9.000 palazzine abusive, prive cioè di ogni benché minima concessione edilizia e delle necessarie opere di urbanizzazione secondaria e primaria. Fu allora che si perse l’identità abitativa, il sistema di relazioni sociali, la dimensione pedonale dell’esistenza. Occorre ammettere che il concetto di periferia, caratterizzato da scarsa qualità edilizia, quartieri dormitorio, lunghi percorsi in autovettura, assenza di legami di vicinato, è abbastanza recente e attiene alle realtà poco governate e gestite male, realtà in cui prevale l’interesse particolare a discapito della Res Pubblica. Non è un caso che le piazze siano assenti nelle periferie e invece trionfi la zonizzazione, cioè una separazione delle funzioni vitali, con la residenza distinta dal commercio, dalla produzione, dal tempo libero e così via. Diversa fu la nascita della città, quando nel 581 avanti Cristo, una colonia gelese, composta da due Ghenos, uno Rodiota e l’altro Cretese, guidati dagli arconti Aristoneo e Pistilo, impadronitisi della mitica Valle, iniziarono a fondarla secondo gli schemi e la cultura dorica, stabilendo, col solco dell’aratro, dimensione e direzione delle insule, degli spazi pubblici, dei luoghi produttivi, degli edifici del potere laico e di quelli religiosi. Tutto fu progettato e realizzato all’interno di una cerchia muraria dove non esisteva il concetto di periferia. Infatti, all’interno dell’insula, coabitavano, seppure in spazi divisi gerarchicamente, in una grande abitazione affacciata sul peristilio interno, aristocratici, artigiani, servi e schiavi. Anche nelle epoche successive, fino al tardo ottocento, le diverse classi sociali convivevano nel palazzo nobiliare, distinte nei piani, riservando il piano nobile alla famiglia del Dominus. Il fatto che, anche in tempi lontani, esistessero dei quartieri separati (In Akragas il quartiere Tebano e quello Egiziano presso l’Emporium, a Palermo la Kalsa araba, o le vie delle repubbliche marinare, a Roma il ghetto ebreo) non voleva dire che questi fossero periferie, ma solo luoghi dove i rispettivi abitanti si erano riuniti per mantenere viva la propria cultura e le proprie abitudini. Oggi assistiamo a realtà policentriche di notevole qualità residenziale nell’Europa centro settentrionale (Londra, Parigi, Berlino, Vienna), mentre nel mezzogiorno d’Italia vediamo crescere periferie indifferenziate, tutte uguali, abitate da cittadini provenienti da realtà diverse e difficili da integrare. L’immigrazione incontrollata di popolazioni, che non hanno come obiettivo quello di integrarsi, ma solo di conquistare parti di territorio dove vivere secondo proprie leggi e proprie tradizioni, in competizione con la popolazione autoctona, sta poi drammatizzando la vita delle periferie. Si pensi alla presenza nigeriana nel quartiere Ballarò di Palermo, o a quella magrebina nella banlieu parigina. Il fenomeno è tanto presente nella nostra società, che l’architetto Renzo Piano Piano sta dedicando ad esso la gran parte delle sue energie, tentando di ricucire il tessuto sdrucito delle periferie attraverso interventi qualificanti. A me sembra un tentativo eroico, meritorio, ma destinato a fallire in quanto collegato alla decadenza della democrazia e alla composizione delle popolazioni, piuttosto che alla qualità dei luoghi. Si pensi alla situazione della Zona Espansione Nord (ZEN) di Palermo che, benché progettata dal grande Vittorio Gregotti, di cui fui assistente nel 1973, sul modello dell’Insula ellenistico-romana, con cura degli spazi residenziali e per il tempo libero, è tuttavia un luogo di emarginazione in quanto abitata da nuclei familiari deportati dal centro storico, in parte disoccupati e privi di istruzione, lontani da ogni cultura legalitaria, obbedienti alle regole del branco, collegati ad una economia trasgressiva e illecita. 

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