QUEL CHE VIDE SILVERIA di Alfonso Lentini*

La balaustra della terrazza, sorretta da una candida sequenza di colonnine, sembrava a sua volta sostenere, rimarcandola, la linea affilata del mare che vi si adagiava sopra. Sormontato il tutto da una barocca baldoria di nuvole.

Là, nello spazio sovrastante quella linea, secondo le millenarie meccaniche dei cosmi, sole luna stelle, talvolta comete e ogni altro corpo astrale ogni giorno scivolavano giù, scorrendo sulla superficie del cielo e infine sembravano squagliarsi nel mare. In una parola: tramontavano.

Questo accadeva da sempre, ben prima che la terrazza, insieme alla gran villa ottocentesca, venisse edificata; ben prima che venissero al mondo umani capaci di costruire e ville e terrazze; ben prima che sulla terra nascessero uomini o altre specie viventi in grado di percepire il moto degli astri. Tramontavano – sole luna stelle e ogni altro corpo astrale – assecondando, docili, i movimenti delle sfere.

Accadde però qualcosa che fece incrinare tutto questo. Fu un crac, un tumb, un clang-frrrr, fu l’evento. E la prima testimone ne fu Silveria, che in quel fatidico istante ebbe a trovarsi ad occhioni spalancati proprio su quella terrazza, dolcemente distesa su una sdraio con le gambe allungate verso l’orizzonte marino.

Ma non accadde all’improvviso. Accadde, l’evento, il vrrrr, preceduto da qualche lieve turbamento delle cose.

 

Gli abitanti di quel remoto paesello del Sud già da qualche tempo avevano cominciato a notare come delle smagliature sulla pelle della quotidianità. Erano gli anni di un qualche dopoguerra, la gente era ancora sconvolta da tutto quello che aveva dovuto vedere e subire: bombardamenti che sventravano prati, boschi e caseggiati, petti dilaniati, sangue che schizzava per le strade. E poi fame, miseria, scoppi improvvisi di rabbia e di passioni. Nei cieli orientali comparivano funghi giganteschi che in un lampo riversavano sul mondo morte e atrocità. Stava accadendo l’incredibile, quello che nessuno avrebbe pensato potesse mai accadere.

A poco a poco ci si andava riprendendo, si riprendeva fiato, ma ormai si era pronti a tutto, nessuno si stupiva più di nulla. Nel cielo venivano avvistati dischi volanti sicuramente giunti da mondi lontani, mentre sui comò della povera gente statue e quadri di Madonne lacrimavano senza posa, razzi dalla coda infuocata solcavano gli spazi del cosmo, nei cinema si vedevano apparire esseri spaventosi – lo scimmione King Kong o il mostruoso Godzilla – e un giorno, perfino, accadde che all’improvviso da una montagna si staccò un enorme macigno che precipitò giù dentro a un’immensa diga e la caduta fece rimbalzare una massa di acqua così grande che travolse e spazzò via interi paesi uccidendo sul colpo migliaia di persone. Il fiume là vicino, il Piave, si riempì di fango e di cadaveri che scivolavano via verso la foce, a migliaia, come fuscelli di legno.

In quei tempi imparammo a ruminare cionf ciank certi bocconcini di gomma come se fossero cibo che però era proibito ingoiare. Addirittura chi sapeva soffiare nella maniera giusta, sporgendo nel contempo la lingua fuori dalle labbra, riusciva a ricavare da quei boli gommosi dei palloncini che si gonfiavano, gonfiavano e gonfiavano sino a quando scoppiavano spiaccicandosi sul viso.

Cionf ciank, ci abituammo ad ascoltare musica nervosa somigliante a un frastuono galattico preferendola alle solite melodie. Ballavamo saltellando come robot o scimpanzé.

Frigoriferi, televisori e sgargianti oggetti di plastica invadevano le case. Senza accorgercene, cominciammo a comprare arnesi di cui non avevamo assolutamente bisogno. Certi detersivi erano così potenti da sbiancare in un fiat anche le macchie più resistenti e in aggiunta, se cercavi bene dentro ai profumati granelli bianchi e blu, vi trovavi giochini, macchinine, pupazzetti, sorpresine che divertivano grandi e piccini! Cionf ciank. Ormai nulla sembrava impossibile, ci si poteva aspettare davvero di tutto.

 

Silveria in quei giorni girava allegramente in bicicletta e la gonna le si gonfiava al vento scoprendo le sue splendide gambe. Anche la celestiale visione di quelle gambe per molti fu un evento inatteso, un dono di Dio di cui sino a poco tempo prima nessuno si sarebbe aspettato di poter godere.

 

Per cui, anche quando cominciarono a verificarsi certi fatti ancora più strani, pochi ci fecero veramente caso, abituati com’eravamo!

Un bel giorno alla stazione si vide un treno che non smetteva mai di passare. Sfrecciava sui binari, vagone dopo vagone, senza fermarsi mai; i vagoni sembravano infiniti, scorrevano uno dopo l’altro, e via così per mesi.

C’era stata, frattanto, un’invasione. Sembravano cavallette, arrivavano volando così numerosi da oscurare il sole come le nuvole di un temporalaccio. Erano tantissimi, non dico miliardi, ma miliardi di miliardi, come minimo. Con le loro zampine blu elettrico, grossi come salsicciotti, si attaccavano ovunque, incrostando le strade, i tetti, i parabrezza delle auto. Insetti disgustosi e maleodoranti, mai visti prima, che arrivarono in massa non si sa da dove, ma subito dopo scomparvero senza farsi vedere mai più.

Qualche tempo dopo, un fatto ancora più strano: i campi si riempirono di penne, come se gli uccelli improvvisamente le avessero perse nei loro voli e quelle fossero cadute giù, fioccando in fasulla nevicata e conficcandosi dritte nei campi. Invece non erano penne cadute dal cielo, ma germogli. Spuntavano dalla terra come fili d’erba e i campi ne erano pieni. A perdita d’occhio le campagne si riempirono di quelle penne vegetali: irte e regolari come steli di papavero, formavano fra i campi chiazze simili ad assurde ali incollate alla terra.

Succedevano poi cose bizzarre anche nel parlare. Le parole che la gente pronunciava non coincidevano più con i movimenti delle labbra. Uscivano dalle bocche ancor prima che fossero pronunciate. Tu aprivi la bocca, ma quello che stavi per dire era già stato detto, sfrecciava invisibile nell’aria, chi doveva sentire aveva già sentito.

E gli specchi, poi. Mettiamo che ti guardavi: tutto regolare, all’inizio. Ma quando ti allontanavi dallo specchio, l’immagine riflessa non scompariva subito, vi rimaneva attaccata, come appiccicaticcia. Indugiava raggrinzita e sonnolenta, sfilacciandosi adagio dentro lo specchio, e infine evaporava.

Anche a me, personalmente, era capitato qualcosa di proprio stravagante: per lungo tempo, dopo la sua morte, avevo continuato a ricevere lettere da un mio amico che viveva al Nord, con il quale ero in corrispondenza. Le buste mi venivano recapitate normalmente, la scrittura era sempre la solita, quella del mio amico, vergata con l’inchiostro azzurrino della sua penna stilografica, ma le date in cima a ogni lettera erano successive alla sua morte. Avrei potuto pensare che potesse averle scritte prima di morire e qualcuno continuasse a imbucarle una dopo l’altra a intervalli regolari, chissà per quale ragione misteriosa o scherzo di cattivo gusto, ma il contenuto delle lettere non lasciava dubbi sul fatto che fossero state scritte di recente, perché vi si parlava di eventi accaduti dopo la morte del mio amico e specialmente i primi tempi erano ricche di dettagli. Continuarono ad arrivarmi normalmente, quelle lettere, per mesi e mesi, solo che col tempo la scrittura si fece via via più evanescente e il contenuto divenne sempre più vago. Ad esempio non diceva più “qui a Venezia”, ma “qui nel luogo dove adesso mi trovo” e anche il riferimento a fatti e persone si faceva più sfuggente, come se chi scriveva avesse una percezione progressivamente più sbiadita delle cose. Col passare del tempo queste lettere arrivavano sempre più di rado e le ultime erano quasi illeggibili, come se le buste contenessero nuvole. Poi più nulla.

Nelle edicole frattanto arrivavano giornali pieni di assurdità. Inizialmente erano piccoli dettagli, che so, si parlava di un delitto accaduto anni prima come se fosse una novità, il caso di quella madre accusata di aver ucciso il proprio bambino fracassandogli il cranio, ad esempio. Ma nello stesso giornale, a volte anche nella stessa pagina, poi, si parlava normalmente di fatti più recenti. Cominciarono ad arrivare giornali datati a caso. Date superate, che facevano pensare a numeri arretrati, ma invece le notizie erano perfettamente aggiornate, oppure addirittura date di giorni che ancora dovevano arrivare, “notizie dal futuro”, in un certo senso; se non fosse che quelle sfasature, almeno all’inizio, erano di pochi giorni e non ci facevi quasi caso. Ma poi l’ordine cronologico si fece sempre più confuso. Date antichissime (che so: 12 ottobre 1915) si sovrapponevano a date da film di fantascienza (che so: 30 aprile 2056 o 2090) e dentro i giornali si parlava caoticamente di notizie scombinate, sempre meno comprensibili. La gente, già per abitudine diffidente verso la carta stampata, cominciò a disinteressarsi dei giornali e andò a finire che quasi nessuno li leggeva più. Nello stesso tempo qualcosa di simile succedeva nelle radio e persino in televisione, del resto giunta da poco nelle case. I programmi si accavallavano confusamente, e in più (nonostante le antenne funzionassero perfettamente) la ricezione era sempre disturbata. Così anche radio e televisione persero attrattiva e ormai nelle case erano tenute quasi sempre spente. O, se tenute accese, si limitavano a trasmette ronzii le radio e puntini granulosi i televisori.

Insomma, per farla breve, il nostro paese (che oltretutto per sua disgrazia si trova in cima a un remoto montarozzo) rimase completamente isolato dal resto del pianeta.

Ormai nulla sembrava impossibile, ci si poteva aspettare davvero di tutto.

Quella era insomma la nostra precaria condizione, quando, visibile dalla terrazza, si verificò l’evento; un evento in confronto al quale tutti gli altri casi ci sembrarono un niente. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare che la disfunzione del mondo potesse spingersi sino a quel punto! Sino a quel punto, dico!

Ne fu testimone Silveria, la ragazza che si trovava in quel momento sdraiata davanti alla balaustra. Il proprietario della villa era un certo Filippetto che, arricchito di fresco per via di certi suoi traffici, l’aveva acquistata dagli ultimi eredi di un barone decaduto e non sapendo cosa farsene di quei vetusti saloni dai soffitti altissimi abitati da angioletti di stucco e ornati di tendaggi, li aveva riempiti di cianfrusaglie, vecchie credenze e armadioni in disuso, gabbie per conigli, financo tavoli da ping pong, calciobalilla; saloni in penombra dove fin dalla nascita il suo unico figlio, Pinuccio, si era aggirato, perso fra quelle bislacche commistioni che però a lui erano sempre apparse normali. Avvenne che Filippetto, essendo il diciottesimo compleanno del figliolo, volle dare un festone, invitando a bizzeffe i giovani del circondario.

Per tutta la giornata ragazzi e ragazze si erano divertiti mangiando, sbevazzando e ballando. Grigliata di agnello, salsicce, costate di castrato, focacce a volontà, e vino rosso a fiumi, e musiche a tutto volume. E poi dolci, gigantesca cassata di ricotta, spumante. E frutta candita, mandorle, pistacchi e noccioline per finire.

Dopo una giornata di euforia, le ragazze barcollavano con le spalline dei vestiti pericolosamente in bilico, i ragazzi dondolavano i testoni a ritmo di mambo o cha cha cha. Gli orchestrali, anche se cominciavano già a sonnecchiare, ci davano ancora dentro. La villa era diventata una cassa armonica traboccante frastuono e allegria. A un certo punto qualcuno aveva sentito uno scatto, una specie di clic o crac o clang-frrrr, simile a un congegno meccanico che si riavvia invertendo il movimento. Ma con tutto quel frastuono chi volete che ci facesse caso?

Silveria nel frattempo era stata presa da un’improvvisa malinconia, come succede quando una festa sta per concludersi e l’euforia precipita di colpo. Le venne un gran magone ed ebbe voglia di star sola, fuggire. Frrrrr.

Senza farsene accorgere, scivolò via dalla festa. Salite le scale, giunse in terrazza, lasciandosi alle spalle il frastuono e la baldoria.

Sulla terrazza sonnecchiava una vecchia sedia a sdraio e Silveria vi si sedette sopra, appagata. Frrrrr. I fianchi avvolti in una leggerissima gonna a fiori, i seni appena velati da una camicetta di seta, distesa sulla sdraio, allungò le gambe in direzione dell’orizzonte.

Il silenzio, addolcito dalla frescura della sera, le dava un senso di benessere dolciastro, perciò indugiò a lungo ad assaporare sulla pelle il tepore di quella notte estiva.

Davanti ai suoi occhioni svagati si stendeva la balaustra di pietra, sorretta dalle colonnine bianche. La linea del mare vi si sovrapponeva e la ricalcava. Come accadeva da sempre, da millenni e millenni, il sole era scomparso da un pezzo e già i riflessi del tramonto insieme a tutta la dorata baldoria delle nuvole erano stati cancellati dal sopraggiungere della notte. Davanti alla balaustra si vedeva soltanto il buio punteggiato di stelle.

Il frastuono che la ragazza si era lasciata alle spalle evaporò a poco a poco. Saranno andati tutti via, pensò, quasi in dormiveglia. Ma rimase ancora là, ad assaporare sulla pelle i tepori notturni. Frrrrrr.

Se non che, a un certo punto il buio comincio lentamente a sfaldarsi, il cielo cominciò a colorarsi nuovamente di rosso, proprio là, ad occidente, dove il sole alcune ore prima era tramontato. Qualche nuvoletta cominciò a bordarsi di luce, poi il filo dell’orizzonte, poi anche il mare si accesero di riflessi, come se il sole e il tempo insieme a lui avessero subito uno scossone, e stessero per tornare indietro.

Silveria si svegliò di soprassalto, colpita da quelle assurde balenate di luce.

E vide nascere l’alba dal tramonto, Silveria. Vide il sole che ritornava sui suoi passi, sorgendo dal mare, esattamente da dove prima era sparito. Galleggiava nell’aria, gocciolante come un pallone appena ripescato, e indugiava indeciso, meravigliato anche lui di quanto stava accadendo. Un bambino sorpreso a compiere un’assurda birbanteria, sembrava. Che in quel momento comprende di averla fatta troppo grossa e vergognoso arrossisce.

 

*Alfonso Lentini è nato a Favara (AG) nel 1951.

Laureato in filosofia, si è formato nel clima delle neoavanguardie del secondo Novecento ed è stato fra i fondatori del Gruppo Ades di Favara.

Dalla fine degli anni Settanta vive a Belluno dove ha insegnato letteratura italiana e storia.

La sua attività spazia dalle arti visive alla scrittura, spingendosi talvolta nei territori della poesia.

Fra i suoi libri: “L’arrivo dello spirito” (con Carola Susani, Perap, 1991), La chiave dell’incanto” (postafazione di Alessandro Fo, Pungitopo, 1997), Piccolo inventario degli specchi” (prefazione di Antonio Castronuovo, Stampa Alternativa, 2003), “Un bellunese di Patagonia” (Stampa Alternativa, 2004), “Cento madri” (vincitore del premio “Città di Forlì”, postfazione di Paolo Ruffilli, Foschi, 2009), “Luminosa signora” (postfazione di Antonio Pane, Pagliai 2011), “Illegali vene” (prefazione di Eugenio Lucrezi, EurekaEdizioni, 2015).

Suoi racconti brevi, poesie o lavori visivi sono usciti a tiratura limitata con piccoli editori di qualità come Fuocofuochino, Pulcinoelefante o in edizione autoprodotta in forma di libri d’artista.

In e-book ha pubblicato due raccolte poetiche: Il morso delle cose (a cura de “La Recherche”, opera finalista alla 23° edizione del premio Montano, 2012) e L’uccisione del fuoco (finalista al premio “Opera Prima” di “Poesia 2.0”, 2014).

Nelle sue numerose mostre e installazioni tenute in Italia e all’estero propone opere basate sulla valorizzazione della parola nella sua dimensione materiale e gestuale.

Il racconto “Quel che vide Silveria” è risultato finalista nel 2015 al concorso letterario “Il giardino di Babuk” indetto dalla rivista online “La Recherche”.

categorie: