C'E' QUALCOSA DI NUOVO OGGI TRA NOI, ANZI DI ANTICO: LE PERSECUZIONI di Giandomenico Vivacqua

“Contestare la presenza della brigata ebraica nella festa della liberazione non è un diritto, è un dovere!”

In un volantino fatto circolare l’anno scorso in occasione della ricorrenza del 25 aprile, e oggi reperibile su internet1 – il cui autore apprendiamo essere un “giurista e attivista per i diritti umani”, già tesserato dell’ANPI sezione Seprio2 –, viene affermato il dovere di opporsi alla partecipazione della Brigata ebraica alle celebrazioni della Liberazione. Tale dovere procederebbe dal fatto che la presenza dei rappresentanti del corpo di volontari ebrei provenienti dalla Palestina, che nel 1944 presero parte, inquadrati nell’esercito britannico, alla lotta di liberazione, combattendo in Toscana e in Emilia Romagna, non sarebbe che una fraudolenta operazione di propaganda voluta dai sionisti. “Noi siamo contro l’uso della Festa del 25 Aprile per bieche operazioni propagandistiche a favore di uno Stato i cui principi fondanti sono antitetici ai valori dell’ANPI e della Resistenza” dichiara risolutamente il difensore dei diritti dei popoli oppressi.

Trascuriamo il giudizio sul fondamento storico e morale delle tesi illustrate nel documento – tesi peraltro debolmente sostenute da un’esigua ricognizione storiografica e inficiate dalla caratteristica acrisia dello stile militante (l’autore, ad esempio, arriva a sostenere in un'intervista come anche il quotidiano Il Manifesto, che gli rifiuta la pubblicazione del documento, sia stato subornato da una qualche centrale di influenza sionista) – e concentriamoci sul passaggio conclusivo del testo: “Per questi motivi e per tanti altri che non possono trovare qui spazio, diciamo no alla presenza della Brigata ebraica che contamina (corsivo mio) i valori della Resistenza: pace, libertà, uguaglianza, giustizia.”

Invero, l’estensore del documento avrebbe potuto esprimere la sua controversa opinione in molti modi. Avrebbe potuto dire che la presenza della Brigata ebraica è inopportunaincongruaoffensiva. Avrebbe potuto spingersi a sostenere che con il loro semplice sfilare gli epigoni di quel corpo insidiano, minaccianocompromettono il senso e i valori della celebrazione. Ma evidentemente, nessuna tra quelle alternative espressioni appagava le esigenze retoriche del propagandista, che le ha dunque, non sappiamo quanto consapevolmente, escluse, ad esse preferendo il verbo contaminare, malgrado il drammatico bagaglio di intolleranza e fanatismo che tale parola, oggettivamente, trascina con sé. Singolare e sconcertante affinità semantica tra il tesserato dell’Associazione Nazionale dei Partigiani (nei suoi organi di vertice confidiamo estranea all’iniziativa) e il segretario del Partito Nazionale Fascista, Achille Starace, che il 25 luglio del 1938, in un compiaciuto commento del Manifesto della razza, così dichiarava: “Con la creazione dell’Impero, la razza italiana è venuta in contatto con altre razze; deve quindi guardarsi da ogni ibridismo e contaminazione.”

Contaminare, secondo il Vocabolario della lingua italiana di Aldo Gabrielli, equivale a sporcare con sostanze nocive, producendo alterazioni; sinonimo, inquinare; estensivo, infettare; figurato, corrompere moralmente e spiritualmente le persone sane.

Nella storia, l’uso di espressioni mutuate dal linguaggio biologico all’interno del discorso politico è servito a tradurre idee di purezza applicate al corpo sociale, a definire una indefettibile condizione di sanità da preservare mediante il ricorso ad adeguati mezzi di profilassi. Donde l’obiettivo ultimo dell’agire politico non sarebbe il governo della società, attraverso la composizione equilibrata dei valori e degli interessi che la agitano, ma la sua guarigione, mediante l’espulsione o l’annientamento dei corpi estranei che la infettano. Il lessico che si forma per esprimere siffatte visioni, del tutto inadeguato a produrre una forma dialettica d’intelligenza della realtà, tende a suscitare il ribrezzo, la repulsione verso le categorie additate come ammorbanti, facendo leva sul primitivismo psicologico, sul pensiero magico, quell’irriducibile mentalità che, anche nei tempi presenti, alimenta l’illusione di potersi liberare dalle possessioni psichiche, quelle individuali e quelle collettive, isolando individui gravati da uno stigma cui attribuire colpe autorali o la responsabilità di crimini immondi, inespiabili se non con la distruzione, morale o fisica, dei loro presunti autori. Quando l’ideologia che ispira un partito o un movimento assume il carattere di una biologia, allora è fatale che il meccanismo vittimario diventi la sostanza della sua prassi e che i suoi documenti siano scritti nella forma di veri e propri testi di persecuzione.3

Coi testi di persecuzione, narrazioni di origine cristiana risalenti al medioevo, venivano raccontate le violenze collettive perpetrate contro stranieri, lebbrosi ed ebrei, ritenuti la causa delle non infrequenti epidemie di peste nera. La cupa fortuna di questo genere letterario, che ha saputo adattarsi all’età moderna ed ampiamente ritroviamo nella propaganda dei regimi totalitari del XX secolo, è strettamente legata all’efficienza dello schema narrativo che vi si adopera, che riflette e giustifica il meccanismo di vittimizzazione, quel dispositivo orientato alla produzione di capri espiatori, mirabilmente indagato da René Girard, da cui l’umanità non è mai riuscita ad affrancarsi del tutto, per quanti sforzi filosofici e giuridici abbia esperito. La mentalità sacrificale matura nella prima temperie evolutiva dell’uomo e ne accompagna lo sviluppo sociale, valendo a preservare l’integrazione comunitaria nella forma scabrosa e crudele del tutti contro uno. Nella Critica della ragion pura, Kant fa un riferimento alla mentalità dei primitivi, incapaci di concepire il rapporto con l’altro se non in termini bellici. L’antropologia girardiana chiarisce che la guerra è una possibilità fintanto che l’altro si mantenga alla giusta distanza, ossia fuori dal perimetro comunitario; quando, invece, ne sia penetrato all’interno, ma senza assimilarsi del tutto, ossia conservando anche solo parzialmente i caratteri della sua alterità, allora l’altro diventa una potenziale risorsa degli apparati sacrificali, l’intruso infestante da screditare e da debellare, affinché la comunità si rinsaldi.

Se ancora ai giorni nostri evidenti tracce del lessico vittimario sono trascorse nel prodotto propagandistico di un militante antifascista; se più in generale in tutte le società aperte dell’Occidente, fondate sul pluralismo e la tolleranza, aumenta il consenso dei gruppi che trasformano in capitale politico il disagio delle fasce sociali maggiormente esposte agli effetti della crisi economica, convogliandolo in direzione del razzismo e della xenofobia, allora, forse, è necessario recuperare una consapevolezza genealogica del fenomeno, per imparare a cogliere tempestivamente, e demistificarli, i segni dell’ideologia sacrificale, là dove principalmente si manifestano, ossia nei nuovi testi di persecuzione

3 R. Girard, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, Adelphi, Milano, 1983, pp. 159-188.

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