QUELL'INCONTRO IN CILE, NELLA TERRA DEI MAPUCHE di Tano Siracusa

Opache e reticenti a dispetto della loro trasparenza referenziale, le fotografie rimangono offerte a sguardi che non sempre le riconoscono uguali  a se stesse.
Nel 1999  andavo in Cile per la prima volta.  Cercavo di cucire ciò che sapevo del suo passato recente a ciò che si mostrava in una Santiago lustra e indaffarata, a Valdivia, a Castro, nella fosca isola di Chiloè  dove piove 300 giorni l’anno.
Pinochet aveva lasciato da poco  il suo ultimo incarico istituzionale di capo dell’esercito, mentre da nove anni, a seguito del plebiscito e delle successive elezioni, aveva dovuto abbandonare la presidenza del Cile. Eppure  il potere e il prestigio del vecchio dittatore incombevano ancora sul paese e lo dividevano, intimidivano il governo di Lagos e una parte della stampa, eccitavano ricordi recenti, forse presagi.  Fotografavo andando in giro, ascoltavo.

Un uomo visto da dietro le persiane che sembrava fuggire nella strada vuota, i cani randagi, certe facce sui giornali e tutti quei militari davanti al palazzo della Moneda, una vecchia che ricordava i morti sui marciapiedi e diceva ‘malo Pinocio’, una ricca  proprietaria  che raccontava della paura quando pretendevano con Allende di rovesciare tutto, che ora si divideva, si faceva a metà, e lo raccontava  sotto un ritratto ad olio del dittatore in divisa, in una villa che mimava splendori settecenteschi ai bordi di Los Sauces, un piccolo centro a qualche ora da Temuco in una zona abitata dai Mapuche, indios che in quelle settimane avevano conquistato le prime pagine dei giornali. 
Avevano inscenato proteste, bruciato qualcosa nella selva, si era sparato. 
In Cile, come dappertutto in America Latina, gli indios fanno parte delle fasce più povere e marginali della popolazione, anche quando sono maggioranza rispetto ai ladinos come in Guatemala. Spesso  il loro habitat viene manomesso dalle esigenze di uno sviluppo orientato dai profitti delle multinazionali e dalla logica del PIL, nel caso dei Mapuche in Cile dai disboscamenti imposti dalla industria del legno. 
A Los Sauces c’è un piccolo ospedale, dove nel 1999 lavorava una dottoressa che non nascondeva le sue simpatie per la destra e raccontava impressionata di alcune sue amiche che erano state incarcerate e torturate dopo il colpo di stato. C’era questo presidio della modernità, un paio di scuole e molta povertà a Los Sauces, dove si raccontavano storie di brujerie, che il diavolo era apparso un paio di volte di notte nelle strade del villaggio in forma di caprone. 
D’altra parte anche a Puerto Montt, sulla costa, fra pittrici e ballerini di tango si faceva capire con un gesto ammirato, senza parole, che quel tale sapeva bene di brujerie. 
Ero lì per fotografare i Mapuche nelle loro abitazioni e la dottoressa mi aiutava, mi faceva viaggiare sulle piste con i mezzi dell’ospedale. Si attraversava la selva per raggiungere abitazioni isolate, in legno, dove la luce filtrava a fasci sui  volti severi di adulti e bambini. Si raggiungeva un presidio sanitario in una radura, e gli uomini  che arrivavano a cavallo rimanevano poi seduti per ore, silenziosi, aspettando il loro turno per la visita.  
Santiago era lontana. Ma a cavallo anche Los Sauces era lontana.   
Quello che faceva le visite non era un dottore ma un infermiere e una specie di pedagogo. Nelle pause istruiva gli indios sulle norme igieniche e sanitarie da rispettare, con discrezione e autorevolezza indicava regole di comportamento, raccontava aneddoti esemplari, tutto un esercizio accorto, sapiente di ragion pratica, di popolare saggezza. 
Era lui che poi a pranzo avrebbe raccontato  degli sciamani, delle fatture, della magia nera, di credenze che sembrava condividere.
Fotografavo la povertà e la dignità di quella gente, e mi sembrava che  fosse tutto abbastanza sotto controllo. Ma non era così, di sicuro non lo era stato più dopo una fotografia che avevo atteso a lungo prima di scattare.
Allora con la pellicola e in quei posti non era possibile neppure sviluppare i negativi in un laboratorio, e comunque non era prudente. In quel reportage che mi sembrava omogeneo, centrato, sapevo che c’era una foto del tutto estranea ai ritratti ambientati che andavo facendo, una foto che era legata ad un sogno e ad uno spostamento di luoghi, a qualcosa che il tempo trascorso mi aiuta oggi ad associare a quel risvolto un po’ magico, stregonesco di Los Sauces. Un mese dopo vedendo le prime stampe avevo avuto la conferma che la foto legata al sogno aveva un posto a parte.
Era un sogno semplice. Una strada in salita che guardavo dall’interno di una caffetteria attraverso una grande vetrata, una larga finestra da dove entrava una magnifica luce polverosa. Da sveglio, ma forse anche nel sogno, associavo questa immagine alle atmosfere di Sotto il vulcano, il romanzo di Malcom Lowry ambientato in Messico. Lì, davanti a quella finestra ero a casa mia, era un luogo dell'anima dove si arriva e si può stare, si può perfino restare. 
A Los Sauces c’era solo un posto dove la mattina era possibile bere un caffelatte e mangiare un po' di pane e di formaggio. Quel locale, che era anche una rivendita di generi alimentari e vari attrezzi agricoli, possedeva una piccola meraviglia, una grande finestra dai vetri appannati, che inquadrava nella luce acerba della mattinata invernale la strada silenziosa, i marciapiedi vuoti. 
Naturalmente mi sedevo al tavolo accanto a quella finestra, facevo colazione lì, mi godevo quella luce che si induriva sul vetro, l’ombra profonda sulla destra dove qualcuno parlava sottovoce. Aspettavo, ma non passava nessuno. Quel perfetto, immobile equilibrio, era come disabitato dal tempo, dall’irruzione del disordine che da fotografo volevo assolutamente rischiare.  
Per diversi giorni avevo fatto colazione con la macchina fotografica poggiata sul tavolo, in attesa. Poi una mattina con rassegnazione avevo impugnato la camera e inquadrato nel mirino. E subito, un attimo prima di scattare, era apparso sulla strada un uomo in bicicletta, raddoppiato dall'ombra nel debole controluce. Mi era  sembrato subito di riconoscere quel momento come si può riconoscere una persona, come in un incontro atteso a lungo. Di sicuro dopo quella fotografia non ho più fatto il sogno “messicano”. Ma ormai sospettavo di essermi  sbagliato, che quella finestra, quella strada non era in Messico, ma in Cile che mi aspettava.
Tornando a Santiago, fra la folla che passeggiava in una delle larghe strade pedonalizzate del centro, c’era un gruppo di Mapuche che mostravano cartelli, i ritagli dei giornali che si erano occupati della loro protesta. Nessuno si fermava a leggere, a parlare con loro, sembravano invisibili.  
Dieci anni dopo, tornando in Cile, mi accorgevo che erano spariti anche dai giornali. Non dal web però, dove dei filmati mostravano uomini in divisa che sparavano nella selva, e si leggeva di scontri a fuoco con gli indios nella zona di Temuco. I Mapuche sono ancora lì,  sopravvissuti nei secoli a stragi e decimazioni, ma è difficile vederli. Contro i capi delle loro comunità che vengono spesso arrestati è stato riesumato anche l'uso  delle leggi antiterrorismo approvate durante la dittatura.
La foto della finestra e del sogno mi sembra dopo quasi 20 anni meno estranea a quel reportage: c’è il silenzio dei Mapuche in quella strada di Los Sauces, come nei loro ritratti; il loro silenzio e quello attorno a loro di una società che non riesce o non vuole vederli e ascoltarli, mentre persegue con successo la crescita del PIL.

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