IN UN GIARDINO PUBBLICO LUIGI E OMAR di Gerlando Mangione

''Le scene di degrado non possono più essere minimamente tollerate perche' e' inammissibile che anche in alcune zone di Milano ci siano veri e propri assembramenti di cittadini stranieri che sostano nei giardini pubblici, ad ogni ora del giorno e della notte, come avviene per esempio ormai da qualche giorno in Piazza Oberdan. Chi non e' in regola e non ha mezzi di sostentamento deve infatti essere allontanato dal nostro Paese e non 'spostato' in un altro quartiere della citta''.

E’ l’ultimo sinistro proclama della Lega che, ringalluzzita dal recente successo elettorale, segno evidente dello specifico peso politico raggiunto al prezzo di una graduale erosione del sentimento di unità e di coesione nazionale, alza i toni sul tema dell’immigrazione, provocando ed irridendo ciò che resta, alla popolazione narcotizzata dagli agi e dall’indifferenza, del sentimento di solidarietà ed umana compassione.

Sabato. Finalmente una giornata piena di sole. Mattina. Abbiamo preparato gli ultimi panini, una torta salata ed un’insalata di riso. Destinazione: i Giardini Pubblici Indro Montanelli (me lo ricordo seduto sulla panchina accanto a quella dove ero seduto, nella primavera del 2001, a leggere il numero speciale di Diario dal titolo “Berlusconeide”) per un picnic. I miei bambini sono già sulla bicicletta. Nel mio zaino, appesantito dalle vivande, dalla palla, dai giocattoli itineranti del vasto repertorio di casa, il mio libro, non si sa mai riuscissi ad eclissarmi da tutto il resto, per un quarto d’ora, e sprofondarvi e ridurre i rumori circostanti al vago silenzio ovattato che ti coglie come dopo un bel tuffo nel mare blu cobalto. Si parte. C’è una strana confusione, che confligge palesemente con l’abituale condizione desertica nella quale immancabilmente e sistematicamente piomba la città “lavora e getta” durante il fine settimana. Entriamo dall’ingresso del “Planetario”, luogo dove il buio che giunge all’improvviso disvela agli occhi incantati dei bambini lo spettacolo della volta celeste e delle costellazioni, e a piccole pedalate raggiungiamo il punto del parco, in leggera pendenza, dove Paloma, Chiara, Massimo ed i figli, ci attendono. Una bella tovaglia è già stata distesa lungo lo spicchio d’ombra regalato dall’imponente ippocastano che abbiamo scelto per le ore assolate di un sabato afoso. Un’occhiata al resto del parco. Accanto a noi, insieme ad alcune coppie che presto non resistono al richiamo di esibire il corpo al tepore ed ai raggi di questo prepotente sole di maggio, un gruppo di ragazzi africani, seduti sul prato, vicini, eleganti nella loro compostezza (di un’eleganza afgana, direbbe Paolo Conte), timidi e discreti nella loro conversazione. Un accenno di sorriso. Chissà cosa si raccontano. Lo sguardo si perde lontano ed a volte si sofferma, calmo e partecipe, sul nostro vociare concitato di genitori assillati dalla costante ricerca del senso autentico del ruolo assegnatoci, se ve n’è uno, di una sua adeguatezza, sulle nostre abbondanti e variopinte vivande, sui capricci ed i lamenti annoiati dei bambini, già paghi di tutto, sui contenuti, apparentemente interessanti e ipocritamente intrisi di consapevolezza ed orgoglio tutto occidentale, del nostro banale chiacchiericcio. Apro il libro. Mi tuffo, mi eclisso. Non riesco e non voglio più simulare un interesse ed una partecipazione che coscientemente ormai rifiuto, a costo di affrontare il fuoco di fila delle considerazioni di fine serata di Claudia circa l’opportunità di non defilarsi, così apertamente, così spudoratamente, dal “contatto” sociale, dalle relazioni “che comunque vanno coltivate”. Il tuffo nel mare blu cobalto dura lo spazio di cinque minuti. Claudia mi chiede se ho visto Luigi. No, non l’ho visto…stavo leggendo ! Sono già in piedi ed inizio a correre. Si tratta di pochi secondi, sufficienti per sentire appiccicato sulla pelle, sugli occhi, sulle gambe, il glaciale morso della paura. Giro appena sulla destra della collinetta del nostro picnic ed il parco si apre in un bellissimo prato. Luigi è lì che tira calci alla palla. Di fronte a lui uno dei ragazzi africani corre a destra e a sinistra, sorridente, per correggere e contenere le traiettorie sghembe impresse dai suoi piccoli piedi, dagli acerbi movimenti delle sue esili gambe. Li raggiungo e mi fermo a guardarli. Il ragazzo chiama per nome Luigi che non ha fatto evidentemente fatica (spero si preservi) ad entrare in confidenza, ed entrambi già grondano di sudore. Luigi mi invita a giocare con loro. Mi unisco e dopo i primi calci alla palla chiedo a Luigi se ha chiesto il nome del ragazzo. Mio figlio mi guarda come se gli avessi chiesto che colore avesse il famoso “sarchiapone”, incredulo che papà possa ritenere un simile dettaglio, così importante. Quando si gioca, in silenzio, e si sorride inseguendo una palla sotto un sole generoso, che senso ha sapere come ci si chiama? E’ vero!
La partitella si conclude ed il ragazzo mi si avvicina con la palla in mano. Me la tende, scusandosi e ringraziandomi di aver potuto giocare con Luigi. Anche lui ha figli, uno dei quali della stessa età di Luigi, ma vivono nel paese dal quale è partito. Ci presentiamo. Si chiama Omar, viene dal Marocco, da Erfoud, ai confini con l’Algeria, qui a Milano fa il muratore, lavora nei cantieri edili, in nero, senza alcun accorgimento per la sua sicurezza. Gli racconto di aver visitato il suo paese. Di aver proprio visto la sua città. Di essere nato in Sicilia, ad Agrigento. La conversazione avanza piana, incoraggiante, colmando via via la distanza tra due mondi, ed Omar, forse incoraggiato dalla mia monca descrizione del suo paese, mi confessa, sorridente, di avere conosciuto anche lui Agrigento, di essersi poi trasferito a Sciacca per occuparsi di un anziano paralitico che gli ha voluto molto bene ed al quale lui spesso pensa nelle lunghe giornate milanesi. L’Italia, la Sicilia, prima di Agrigento, prima di Sciacca, è stata, però, per Omar una goccia di terra nel mezzo del Mediterraneo, Lampedusa, è stata un’immagine coccolata con forza e con dolcezza lungo la sfiancante navigazione in mare aperto, nelle tenebre della notte, nel silenzio arso del giorno infuocato da un sole tagliente. Un’ombra cade improvvisamente ed il suo racconto incespica. A pochi passi il picnic prosegue stancamente senza variazioni. Salutiamo Omar. Luigi è accanto a me, si è stretto a me. Sono sicuro che questa sera, prima di addormentarsi, mi chiederà, come tutte le sere, di raccontargli una storia, magari quella del suo nuovo amico, Omar il calciatore che ha sconfitto i mostri marini.
 
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