LA DIASPORA AGRIGENTINA. CONVERSAZIONE CON L'AVV. ALFONSO CIGNA di Gerlando Mangione

La conversazione che segue ha avuto luogo, circa tre anni fa, a Milano. E’ iniziata in un giorno piovoso di ottobre, in una confortevole stanza di uno studio legale, al riparo da fascicoli e codici, e si è conclusa in un altrettanto accogliente salotto di una tranquilla e calda casa del centro, sotto il corposo stillicidio della pioggia impietosa di novembre.

Protagonista di questa chiacchierata è l’Avv. Alfonso Cigna, recentemente scomparso, decano degli agrigentini a Milano, professionista del Foro di Milano, figlio dell’Avv. Domenico Cigna, giurista illustre, socialista e letterato.
 
G.M. Carissimo Avv. Cigna, vuole parlarci della sua nascita e della sua famiglia?
A.C. Sono nato ad Agrigento il 2 marzo 1922 nella villa posta nella parte iniziale del Viale della Vittoria, poco prima dell’odierna Intendenza di Finanza. La villa, di proprietà di mio nonno materno, era costituita da sei appartamenti in uno dei quali abitava la famiglia di mio zio, Ignazio Altieri, fratello di mia madre. Una delle grandi doti di mia madre era quella di essere un’attenta ed oculata amministratrice familiare: era a lei che mio padre consegnava il guadagno della giornata ed era lei che, nella toilette della camera da letto, conservava ben distinta tutta una serie di buste contenenti il danaro necessario per le spese correnti della famiglia. L’attenzione di mia madre per l’economia domestica è stato sicuramente un lascito della personalità e del carattere di mio nonno materno, un contadino originario di San Paolo in Civitate, in Puglia, il quale, giunto per il servizio militare ad Agrigento, intraprese presto un’attività che prima si limitò alla riparazione ed alla manutenzione delle armi dei cacciatori, per poi trasformarsi in una vera e propria attività commerciale che gli consentì di aprire un piccolo emporio che, credo, si trovasse nella piazza del Municipio. Con i guadagni ricavati da questa attività riuscì poi ad acquistare un terreno al Viale della Vittoria ove vi realizzò la villa dove poi sono nato. Mio nonno, tuttavia, nonostante le grandi capacità ed attitudini nel campo degli affari, non sapeva scrivere e fu costretto, per tale motivo, molte volte a rifiutare prestigiosi incarichi pubblici.
 
G.M. Avv. Cigna, ci parli di suo padre, l’Avv. Domenico Cigna.
A.C. Mio padre, originario di Canicatti, era l’undicesimo figlio di una numerosa famiglia che abitava in una grande casa nel centro del paese. Ricordo di aver frequentato moltissimo la casa dei miei nonni paterni ed in particolare di avere affrontato numerosi viaggi per assaporare il pane che veniva sfornato periodicamente dal forno a legna di casa, autentica ed indimenticabile delizia. Dal carattere forte, a tratti irascibile, mio padre era dotato di una personalità molto decisa. Pensa che quando percorreva in carrozza il tratto di strada tra casa nostra ed il Tribunale decideva lui il compenso da riconoscere o meno al cocchiere. Ed in questi casi era mia madre che risolveva tutto, raccogliendo le rimostranze del cocchiere e pagando lei il prezzo della corsa che papà si era rifiutato di pagare.
 
G.M. Che padre è stato Domenico Cigna. Come riusciva, ad esempio, e se vi riusciva, a conciliare lavoro e famiglia?
A.C. Mio padre aveva lo studio professionale in casa, occupava due locali di questa. La mattina riceveva i propri clienti. Molti di essi erano contadini e provenivano dalla provincia. Si presentavano spesso con ogni genere di doni: tacchino, capretto, conigli, panieri pieni di frutta. E’ stato un padre molto presente e attento alle esigenze di noi tutti. Ricordo che quando doveva studiare e prepararsi per una causa, per un’udienza, passeggiava avanti e indietro nella terrazza di casa per cercare l’ispirazione e la concentrazione per tutto ciò che avrebbe detto l’indomani: non era certamente un uomo da tavolino. Un’altra cosa che lo dilettava era la letteratura, era appassionato, leggeva molto ed era noto per la sua preparazione e la sua cultura letteraria. Ha scritto anche diverse poesie e questa sua passione è stata molto importante per me. Ho imparato molto da lui ed ho ascoltato molti suoi racconti.
 
G.M. Quali autori della letteratura e della poesia ha amato suo padre?
A.C. Ha amato molto D’Annunzio, ma anche Edgar Alan Poe, di cui mi leggeva le novelle, Baudeleire, Emile Zola, Victor Hugo. Nella sua biblioteca vi erano, oltre a diversi libri proibiti, anche molti testi di storia, di filosofia della politica, filosofia del diritto, economia, diritto penale.
 
G.M. Suo padre è stato anche un instancabile creatore di riviste e quotidiani socialisti.
A.C. Si, ricordo che a Canicatti fondò “Il Ranocchio”, rivista prevalentemente di satira politica, poi “La Folgore Socialista”, dal carattere più squisitamente politico, tuttavia alla portata di tutti. Pensa che in diversi numeri del giornale spiegò il marxismo ai contadini: il principio del plusvalore, ad esempio, lo illustrò raccontando di un contadino che aveva sgusciato e venduto delle mandorle da sé e di un altro contadino che aveva sgusciato e venduto la stessa quantità di mandorle, tuttavia, agli ordini di un padrone. Dopo aver confrontato i rispettivi ricavi, il contadino “dipendente”, evidentemente non soddisfatto del proprio guadagno, si reca dal padrone per chiedere spiegazione di questa differenza. Il padrone gli risponde: “E tu il mio capitale come lo consideri?”
 
G.M. Nel dialogo con voi figli, suo padre è riuscito a comunicare i valori di libertà, uguaglianza, giustizia sociale, tipici di una cultura e di una formazione socialista che gli apparteneva?
A.C. Moltissimo. Mio padre mi portava spesso con sé. Le nostre chiacchierate e le nostre passeggiate prendevano a volte la strada che ci conduceva, ad esempio, alle cave di tufo, dove diversi operai svolgevano per tutta la giornata un lavoro faticosissimo e mal pagato, l’estrazione e la lavorazione dei conci di tufo, meglio note come le “tistette”. Andavamo anche al porto e molte volte, insieme a dei pescatori, andavamo a bordo delle loro paranze, affinché vedessi con i miei occhi la loro fatica, mal ricompensata dai magri guadagni.
 
G.M. Avv. Cigna, suo padre è stato anche parlamentare, a seguito dell’elezione, il 15 maggio del 1921, alla Camera dei Deputati .
A.C. Si, della sua esperienza parlamentare ho potuto conoscere molto di più durante la mia adolescenza. Ricordo che mi parlò del grave momento scaturito dal sequestro e dall’uccisione di Giacomo Matteotti. Mio padre e Matteotti erano amici oltre che colleghi di partito. Mi parlò del fallito attentato a Benito Mussolini, ordito da tale Tito Zaniboni, ufficiale dell’esercito.
 
G.M. Di quale, tra gli interventi svolti dall’Avv. Domenico Cigna alla Camera dei Deputati, si conserva memoria?
A.C. Sicuramente quello tenuto, nel dicembre del 1921, sulla mafia e sui rapporti e le collusioni tra mafia e politica in Sicilia, per il quale ricevette delle manifestazioni di sostegno e di solidarietà da parte di una grande fetta della popolazione siciliana, ma anche delle particolari attenzioni da parte di chi era stato il destinatario di quel discorso: mio padre, infatti, subì un’aggressione a Cianciana, sulla strada del ritorno da Roma, dal quale ne uscì miracolosamente salvo.
 
G.M. Avv. Cigna, suo padre è stato anche un grande avvocato penalista. Tra i tanti processi celebrati da suo padre, ne ricorda in particolare qualcuno?
A.C. Ricordo il caso Trainiti: una bellissima ragazza della famiglia Trainiti, in odore di mafia, si era innamorata di un ragazzo fascista, giunto ad Agrigento per ricoprire degli incarichi non ben precisati conferitigli dal Governo. Si seppe, dopo qualche tempo, che la ragazza aspettava un bambino dal giovane fascista il quale fu insistentemente invitato a rimediare allo scandalo provocato con il matrimonio della giovane Trainiti. Il giovane, non volendo sottoporsi a questa richiesta, decise di scappare da Agrigento, ma non riuscì neanche ad arrivare alla stazione perché alcuni emissari della famiglia lo raggiunsero e lo uccisero: il giovane fascista, però, in punto di morte confessò che la ragazza non l’aveva neanche sfiorata. Al processo, che per legittima suspicione si celebrò a Siracusa, mio padre assunse la difesa della famiglia Trainiti. Gli autori materiali ed in mandanti della stessa famiglia furono assolti per motivi d’onore.
Ricordo anche il caso di un esponente della Provincia di Agrigento, accusato di spionaggio durante la prima guerra mondiale. Pare che questo signore riuscisse a tenere i contatti con i tedeschi attraverso il mare. C’è stato poi il caso Ferrigno che ha ispirato Leonardo Sciascia per il suo romanzo “Porte Aperte”, dal quale è stato poi tratto l’omonimo film di Gianni Amelio, con Gian Maria Volontà ed Ennio Fantastachini. Ferrigno era un impiegato della Provincia di Palermo che uccise la moglie in quanto ritenuta colpevole di tradimento con un gerarca fascista. Fu condannato a morte per fucilazione ma il caso rimase memorabile in quanto fu coinvolta gran parte della gerarchia fascista siciliana ed in quanto Ferrigno alla fine non fu altro che un capro espiatorio di colpe evidentemente imputabili ad altri soggetti al di sopra di ogni sospetto. Mio padre difese Ferrigno insieme all’Avv. Marchesano ed all’Avv. Scurria entrambi di Palermo.
Ricordo, infine, il processo a Gigino Gattuso, cui ha fatto riferimento Andrea Camilleri nel romanzo “Privo di Titolo”. Gattuso era un giovane fascista il quale perse la vita per un colpo di pistola esploso durante una colluttazione con un giovane socialista, tale Ferraro che venne condannato. Mio padre fece riaprire il processo e riuscì a dimostrare che il proiettile che aveva ucciso Gattuso fu esploso da mano fascista.
 
G.M. Avv. Cigna, parliamo adesso della sua adolescenza e della sua giovinezza ad Agrigento, durante il fascismo.
A.C. Agrigento durante il fascismo, nonostante le innegabili privazioni che hanno caratterizzato quel periodo, è stata una città molto viva, quasi costantemente proiettata ad esaltare la spensieratezza e la dolce vita. Alcuni già possedevano delle automobili e noi giovani destinavamo gran parte del nostro tempo al divertimento e alle gite con gli amici. A San Leone, ad esempio, allora piccolissimo borgo costituito da sparute casette, dove ci recavamo ad acquistare il pesce pescato da pescatori privati (ricordo la figura di Giaracannà). Agrigento, infatti, rispetto a Porto Empedocle non aveva una tradizione peschereccia: il pesce, sia che provenisse da Porto Empedocle che da San Leone, veniva trasportato poi a bordo di muli ed infine collocato sui banchi del Piano Lena in Via Bac Bac. Sulla spiaggia di San Leone vi erano gli stabilimenti balneari costruiti, ricordo, da un certo Cardinale e durante l’estate la nostra famiglia si trasferiva nella casa di Maddalusa, frequentata anche da diversi miei amici come Dante Bernini, Gaspare Giudice, Emilio Afrone, Doloverti, con i quali facevamo lunghi tratti di strada a piedi per raggiungere la spiaggia sanleonina.
 
G.M. Che atteggiamento ha assunto Agrigento nei confronti del fascismo e delle manifestazioni tipiche di regime?
A.C. Mah, che la città fosse entusiasta del fascismo, non c’è dubbio. Tranne mio padre, Settimio Biondi, Balletti, Sciabica, Giovanni Tedesco ed altre pochissime persone, la maggioranza della popolazione agrigentina, o per la sua organica adesione al partito fascista o in ogni caso per pura comodità e convenienza, è stata fascista. Quello di Agrigento è stato proprio un fascismo di provincia, gli antifascisti e gli iscritti al partito convivevano quasi pacificamente, la città è stata assolutamente compiacente e supina. L’unico momento, forse, in cui si sperimentava il rigore del regime e si assaporava la crudezza delle regole illiberali, tipiche di una dittatura, si presentava quando Mussolini o altri esponenti del Governo arrivavano in visita ufficiale alla città. Mio padre e gli altri antifascisti agrigentini venivano costretti ad allontanarsi dalla città e a farvi ritorno a cerimonia e giornata concluse.
 
G.M. Uno dei momenti più bui e tristi del ventennio fascista è stato il 1938, anno in cui furono approvate le leggi razziali. Ad Agrigento vi sono stati episodi di persecuzione razziale e di isolamento nei confronti di ebrei?
A.C. No, che io ricordi non vi sono stati episodi di persecuzione razziale anche perché non vi era una vera e propria comunità ebraica. Agrigento sostanzialmente, da questo punto di vista, è stata una città pacifica, oserei dire“fissa”, priva di carattere, anche molto pettegola. Unico scopo della città in quel periodo è stato procurarsi costantemente occasioni di divertimento.
 
G.M. Si può, dunque, sostenere che Agrigento abbia salutato con entusiasmo l’entrata in guerra del paese?
A.C. Si, direi proprio di sì.
 
G.M. Non vi sono state delle voci non schierate, di resistenza politica o di dissenso aperto nei confronti della generalizzata ed entusiasta adesione della città al Fascismo?
A.C. A dire il vero, molto poche. Mio padre è stata una di queste ed in quanto indubbiamente anomalia rispetto all’atteggiamento ed alle convinzioni comuni degli agrigentini, veniva tollerato come d’altra parte gli altri pochi antifascisti.
 
G.M. Avv. Cigna, il 10 luglio 1943 lei dove si trovava?
A.C. Non ero ad Agrigento. Mi trovavo in Puglia, all’aeroporto di Grottaglie, dove svolgevo il servizio militare come volontario, circostanza questa che provocò a mio padre un grande dispiacere. Non ho, pertanto, vissuto lo sbarco degli alleati in Sicilia ma ho assistito ai bombardamenti ed al successivo ingresso delle truppe alleate al porto di Taranto. L’ingresso a Taranto non è stato facile per gli alleati, in considerazione del fatto che i tedeschi avevano interamente minato il porto e molte loro navi saltarono in aria.
 
G.M. Parliamo della sua esperienza e della sua formazione scolastica.
A.C. Devo riconoscere di non essere stato uno studente esemplare. Non avevo una gran voglia di studiare, tant’è che i miei genitori decisero di mandarmi al collegio gesuitico “Pennisi” di Acireale, frequentato anche da quello che poi diventerà l’onorevole Sinesio. Dopo aver frequentato ad Acireale le scuole medie tornai ad Agrigento per frequentare il Liceo Classico Empedocle.
 
G.M. Ricorda alcuni dei compagni del Liceo Classico Empedocle?
A.C. Bellia, Ignazio Giudice, che poi diventò Preside, Pino Cucchiara, Bennici
 
G.M. E dei professori del Liceo?
A.C. Ricordo il prof. Sciascia che insegnava italiano e letteratura italiana, il prof. Carlo Greca che insegnava Filosofia, il Prof. Palermo matematica, la Prof.ssa Alaimo Scienze….Avevo, tuttavia, una particolare predilezione per l’italiano e la letteratura e per le lezioni del Prof. Sciascia che, come quasi tutti i docenti dell’epoca, simpatizzava per il partito fascista. Il prof. Palermo, invece, era dichiaratamente comunista ma mai durante le lezioni è stato fatto un riferimento anche larvato a questioni politiche. Per me, tuttavia, una grande scuola di formazione personale è stato il periodo del servizio militare nel corso del quale ho avuto modo di incontrare delle persone che coltivavano interessi a me affini: ho fatto amicizia con diversi ragazzi antifascisti, i quali, oltre a risvegliare in me l’interesse per la politica, trasmessomi da mio padre, costituirono un importante punto di riferimento per la mia personale formazione culturale. Cominciai ad appassionarmi di lettere, di filosofia e questi interessi ebbi modo poi di coltivarli ancor di più al mio ritorno ad Agrigento, grazie alla frequentazione di cari amici come Dante Bernini, Gaspare Giudice, Dario Sutera, Antonio Ruoppolo, i quali avevano un’approfondita conoscenza nel campo letterario.
 
G.M. Dei libri e delle letture che hanno contribuito a formare la coscienza, l’individuo Alfonso Cigna, quale ricorda in particolare?
A.C. Sicuramente “I miserabili” di Hugo, i romanzi di Emile Zola, testi tutti che riuscivo a trovare e a requisire nella biblioteca di mio padre. Conservo anche un particolare ricordo di molti testi di Filosofia del Diritto, di Politica e Sociologia. Sotto questo profilo, gli anni del dopoguerra per me sono stati importantissimi, anni di proficua, fertile e copiosa lettura.
 
G.M. Avv. Cigna, quando giunge la decisione di lasciare Agrigento e di trasferirsi a Milano e perché?
A.C. Subito dopo la guerra, a casa nostra ospitai per un lungo periodo un mio carissimo amico e commilitone di Torino, il quale dopo aver concluso la sua esperienza agrigentina mi invitò ad andarlo a trovare a Torino. Mio padre era morto da poco. Per il diverso indirizzo impresso alla mia attività professionale (sono stato e sono tuttora un civilista) rispetto alla specializzazione in diritto penale di mio padre, nonché per una evidente difficoltà ambientale connessa all’inclinazione naturale di Agrigento verso le piccole prepotenze e i piccoli privilegi riservati ai pochi, decisi di trasferirmi a Torino, in una stanza in famiglia. Trovai, grazie all’intercessione dell’ordine dei Gesuiti di Torino, un posto nello studio legale di un avvocato il quale mi avvertì subito delle difficoltà che avrei incontrato nell’inserimento professionale per le poche opportunità presenti nella città, fatta eccezione per la FIAT della famiglia Agnelli. Fui, pertanto, convinto a trasferirmi a Milano, in uno studio legale di un avvocato, ove giunsi nel 1947.
 
G.M. Al suo arrivo, qual’è stata la prima impressione della città di Milano?
A.C. L’impressione è stata veramente come di un grande caos. Iniziai a svolgere la mia professione presso l’Avv. Sardo, successivamente condivisi i locali e la clientela (costituita prevalentemente da agricoltori) con il Dr. Castelli, dottore in economia e commercio. Poi frequentai lo studio dell’Avv. Agozzino, anche lui agrigentino, e successivamente conobbi il Dr. Lodato, all’epoca funzionario della dogana, con il quale instaurai e condussi una proficua e duratura collaborazione professionale, sino a quando iniziai a sviluppare una mia personale clientela, soprattutto tra i cosiddetti “neolisti”, i produttori delle insegne al neon.
Sulla città di Milano, posso dirti che grande impressione mi fece la libertà, la passione, l’interesse e la partecipazione che i milanesi profondevano nelle accalorate e frequenti discussioni politiche, soprattutto in Piazza del Duomo, dove spesso si riunivano, in particolare la domenica, molti rappresentanti dei partiti.
 
G.M. Si ricorda quale orientamento politico avesse in quegli anni l’amministrazione comunale?
A.C. Credo fosse un’amministrazione socialista, guidata dal Sindaco Greppi. Sul piano del mio interesse verso la politica, Milano mi consentì di frequentare molti circoli politici, da quelli socialisti ai quelli comunisti ed anche i circoli liberali. Mi legai a Eugenio Scalfari, il quale aveva costituito un circolo, con sede in Piazza S. Babila, denominato “La Consulta”, dove settimanalmente venivano tenute delle conferenze e dei dibattiti sui temi dell’economia e della politica, ai quali partecipavano diverse personalità: ricordo ad esempio Carandini, Mario Pannunzio ed altri esponenti del gruppo de “Il mondo”, Compagna che aveva fondato la rivista “Nord-Sud”. Poi la professione forense ebbe il sopravvento sull’interesse verso i temi della politica e dell’economica ed iniziai giocoforza ad allontanarmi per dedicarmi interamente alla professione.
 
G.M. Gli anni ’50 a Milano sono gli anni dell’espansione industriale e del connesso fenomeno dell’emigrazione del Sud. Lei ha dei ricordi specifici di quegli anni?
A.C. Beh, furono anni di crescita economica e di sviluppo commerciale ed industriale. In quel periodo fiorì ad esempio il commercio dei tessuti per abbigliamento che mi consentì di incrementare la clientela proprio in questo settore. Furono anche anni, come giustamente hai osservato, in cui si manifestò in tutta la sua portata il fenomeno migratorio dal Sud e dalle Isole. I meridionali erano povera gente, venditori di sigarette agli angoli delle strade, ad esempio.
 
G.M. Quando e dove ha conosciuto sua moglie?
A.C. Ho conosciuto mia moglie a Milano, lavorava in una ditta svizzera di import. Ad ora di pranzo andavamo a mangiare nello stesso ristorante ed è così che ci siamo conosciuti. Dal nostro matrimonio sono nati Domenico, anche lui avvocato, e Caterina, figli stupendi che oggi mi assistono e mi stanno molto vicini.
 
G.M. Torniamo per un momento ancora a Milano ed in particolare agli anni ‘60, alla fine degli anni ’60 durante il periodo delle contestazioni studentesche.
A.C. Mah, quello del ’68 è stato un fenomeno di cui non mi sono molto interessato. Ho partecipato a qualche riunione nei circoli politici, ad esempio al circolo “Perini”, nel corso della quale si affrontavano alcuni temi sociali ma strada facendo ho cominciato ad avvertire un mio graduale ma inesorabile distacco dalla politica e dal gusto di fare e di discutere di politica…
 
G.M. Come mai?
A.C. Forse perché mi resi conto che la politica era nel frattempo diventata un mero strumento finalizzato al soddisfacimento di meri interessi personali, all’affermazione di individuali progetti di successo rispetto al senso più alto della politica quale strumento al servizio della comunità e dell’interesse generale. Sono cresciuto e sono stato educato ai valori di libertà, uguaglianza e giustizia sociale. Mio padre vedeva il socialismo principalmente come evoluzione dell’essere umano, quale sistema di vita e di pensiero con una funzione costruttiva, di sviluppo ed educativa: permettere all’uomo di realizzare sé stesso, e con sè tutte quelle qualità ancora inespresse. Veicolo per questo percorso, la cultura, intesa come vera e propria costante coltivazione dell’uomo nelle sue qualità essenziali. Non ho più, pertanto, provato alcun interesse per quella politica che, in quanto proiettata unicamente al soddisfacimento di bisogni materiali ed alla individuazione di metodologie, sistemi e soluzioni finalizzate esclusivamente alla conservazione delle strutture e degli apparati della stessa politica, ha sostanzialmente dimenticato l’uomo, abdicando così alla sua più profonda natura. Anche l’economia, quale strumento di soddisfacimento dei bisogni dell’uomo, non può essere fine a se stessa e non può prescindere dall’uomo e dalla sua essenza più profonda ed unitaria costituita dalla propensione e dall’educazione all’arte, alla scienza, alla musica, ma anche alle regole giuridiche di convivenza che consentono all’uomo di regolare il proprio rapporto con gli altri, il tutto al fine di delineare una compiuta realizzazione di sé e di consentire agli di poter liberamente realizzare sé stessi. D’altra parte lo stesso Blondel diceva che l’uomo vive con gli altri, per gli altri e per mezzo degli altri. Oggi, purtroppo, assistiamo ad una crisi dell’uomo che è anche crisi dell’umanesimo, quale concezione di vita fondata sui valori che ho descritto; è un’epoca, la nostra, dove prevale il materialismo, il consumismo, il secolarismo, come direbbero i preti.
 
G.M. Il periodo che va dalla fine degli anni ’60 alla fine degli anni ’70 in Italia, ed in particolare a Milano, è stato molto difficile, anni in cui si manifesta il dramma del terrorismo che si annuncia con la strage di Piazza Fontana alla Banca Nazionale dell’Agricoltura. Avv. Cigna, lei che ricordi ha di questo tremendo fatto?
A.C. Ricordo perfettamente quel giorno ed i giorni che seguirono, nei quali la città sembrò come piegata e devastata dall’onda terribile di questa strage. L’emozione era palpabile e culminò nell’enorme, silenziosa e commossa partecipazione del popolo milanese ai funerali delle vittime celebratisi al Duomo. Altre morti, devo dirti, mi hanno profondamente colpito, come quella di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino che hanno segnato una svolta, un punto di non ritorno nel graduale percorso degenerativo della nostra società, dove politica, poteri occulti e mafia sono stati e sono tuttora tra loro strettamente legati da un pactum sceleris che di fatto ha governato e governa il paese. Siamo, come vedi, molto lontani dal concetto di politica quale missione e quale mezzo per realizzare l’uomo nella sua più profonda essenza. Prevale piuttosto il carrierismo, l’affarismo, l’egoismo, l’individualismo…..
 
G.M. Avv. Cigna, venendo alla professione forense che lei esercita qui a Milano sin dal 1948, quali differenze, in questo lungo esercizio professionale, nota oggi rispetto al modo di esercitare l’avvocatura agli inizi di questa sua avventura?
A.C. Beh, quando ho iniziato, ma anche successivamente, il rapporto tra i colleghi, ad esempio, è stato sempre contraddistinto da un grande rispetto reciproco. Le mie convinzioni socialiste ed i relativi principi ai quali ho sempre prestato fede non mi hanno impedito di coltivare profonde amicizie con avvocati appartenenti a partiti opposti, quali ad esempio il movimento sociale italiano. Ricordo ancora con grande dispiacere l’uccisione, per motivi esclusivamente politici, dell’Avv. Pedenovi, amico e collega in tante cause nelle quali ci siamo affrontati sempre lealmente. La lealtà, l’integrità, la correttezza, il disinteresse personale quale motivo essenziale della nostra professione, non appartengono purtroppo più all’attuale classe forense.
 
G.M. L’Avvocatura milanese è stata poi molto colpita con l’uccisione dell’Avv. Giorgio Ambrosoli, che assunse l’incarico di liquidatore della Banca Italiana di Michele Sindona.
A.C. Ambrosoli è stato veramente un eroe, perché nonostante fosse stato più volte minacciato, proseguì nella più completa solitudine il proprio lavoro sino al sacrificio personale
 
G.M. Carissimo Avv. Cigna, un’ultima domanda: cos’è per lei oggi Agrigento e cosa viceversa rappresenta oggi Milano. Quale sensazione prova ad ogni ritorno ad Agrigento?
A.C. Il ritorno ad Agrigento è sempre piacevole. E’ sufficiente fare una passeggiata al Viale della Vittoria, affacciarsi da lì verso la valle ed un senso di vera beatitudine mi pervade, anche se non posso non rilevare l’incuria e l’indifferenza degli agrigentini nei confronti dei loro beni più preziosi: l’ambiente naturale ed i beni monumentali. Milano invece mi sta cadendo dal cuore. E’ una città frustrata, spiritualmente e culturalmente povera, senza avvenire, diversa dalla città che trovai al mio arrivo, piena di fermenti, di prospettive, di iniziative, più tollerante.
 
 
 
 
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