UN MONDO A PARTE - LA "RESTANZA" di Rosario Zammuto

Nel film “Un Mondo a parte”, di Riccardo Milani con Antonio Abanese e Virginia Raffaele, si parla di “Restanza” andando in verticale su temi come la Scuola e con un’attenzione pragmatica che dovrebbe avere la Politica fatta, invece, solo di slogan.
Di seguito il mio tentativo di spiegare perché parlare di Restanza è la via maestra per parlare in profondità di Sostenibilità Ambientale e Sociale.
Secondo l’antropologo Vito Teti il concetto di “restanza” (libro La Restanza) racchiude in sé il restare e, nello stesso tempo, il partire. In particolare, secondo il professore calabrese “per restare davvero”, bisogna andare via “con forza dall’inerzia di una nostalgia regressiva” per fondare nuovi progetti, avere nuove aspirazioni, fare nuove rivendicazioni.
In “Lento Pede, Vivere nell’Italia estrema” (Domenico Cersosimo e Sabrina Licursi), una ricerca empirica sulla Calabria interna, vengono chiaramente individuate le motivazioni del “restare” e quelle del “partire” che sono probabilmente categorie universali.

Secondo questa ricerca, quelli che decidono di restare lo fanno perché al proprio paese esiste ancora una migliore qualità della vita attraverso rapporti interpersonali ancora appaganti, familiari e no, da cui un senso di maggiore protezione derivante dalla dimensione piccola del paese. Si resta anche per questioni più strettamente pratiche come, per esempio, il costo della vita minore in cui la vera differenza è fatta dall’essere proprietari di una casa. Bisogna chiedersi se sia così ancora oggi o se in molti altri paesi, i rapporti familiari non si siano, invece, già “rarefatti”; forse, saremo davvero l’ultima generazione che si occuperà direttamente dei propri genitori, come mi ha fatto notare una mia amica incontrata mentre faceva in fretta la spesa ad Aragona in una “Putia”; lento pede, cara amica mia, la lentezza che vorremmo vendere ai turisti e che non riusciamo a garantire più neanche a noi stessi. Chi parte, invece, lo fa per il desiderio di vivere in contesti urbani più ricchi di opportunità di lavoro, di formazione e per la maggiore offerta di servizi. Non si parte, quindi, solo per la ricerca di lavoro. Si può partire, o decidere di non tornare, anche per la paura delle difficoltà che si potranno incontrare un domani riguardo alla formazione dei propri figli. Si parte per il timore che vengono o verranno a mancare anche nel nostro paese quelle relazioni familiari che sono sempre state la rete di protezione degli anziani. Infatti, chi parte ha sotto gli occhi la “desertificazione dei servizi di welfare sociale e sanitario”. Non parlo solo di un Pronto Soccorso dell’agrigentino “a caso”, che fa aspettare una giornata intera un povero anziano di quasi 90 anni ma mi riferisco anche a centri di eccellenza di Catania (si dice il peccato … ) dove, ricoverati in “intramoenia”, uno degli obiettivi dei Medici è, forse ancora prima che la cura del paziente, la produttività degli interventi effettuati. Per fortuna il risultato finale è ancora, il più delle volte, eccellente da un punto di vista tecnico; il fatto è che il calore umano, che in alcune occasioni è fondamentale per il malato, è elargito ancora “a tempo”, massimo un’ora al giorno, il resto del tempo non puoi quasi neanche telefonare. Chi parte ha anche bene in mente il degrado della Scuola, fisico, didattico e morale, dovuto non tanto all’impreparazione dei docenti quanto alla mancanza di stimoli e strutture didattiche adeguate che forse sono il motivo per cui i nostri giovani arrivano nelle ultime posizioni ai “test Invalsi”. Nei nostri paesi del “Suddovest” siciliano non siamo certo ancora ai livelli del film “Un Mondo a parte” dove in maniera ironica, divertente e preoccupante allo stesso tempo, si descrivono aule scolastiche che pensavo esistessero solo nei film ma che sono la realtà di molti paesi allo stato di spopolamento “avanzato”: le pluriclassi. Infine, un’analisi a parte meriterebbe anche la “mobilità”, ben conosciuta e sofferta da chi per raggiungere l’aeroporto più vicino (Catania per esempio) è costretto a metterci più tempo che per raggiungere la destinazione finale (Milano per esempio).
Occorre riflettere sul fatto che spesso quello che ci viene propinato attraverso i canali istituzionali tende ad essere “mercificato” in processi e produzioni di massa che con il tempo non saranno più in grado di offrirci “u pumadoru” (il sugo di pomodoro) fatto in casa con il “San Marzano” nostrano con “metodi” che erano un modo festoso e sociale di stare insieme. Non chiedo di tornare al passato ma mi domando il significato oggi di fare una vacanza in cerca di esperienze “genuine”, se poi al rientro dalle vacanze andiamo a comprare la salsa fatta con il pomodoro cinese? È vero che la Sicilia e il territorio agrigentino possono offrire queste esperienze in varie “salse”, attraverso luoghi come i GAL Sicani con l’iniziativa pubblica o di privati paesani, veri ambasciatori del nostro territorio. Ritengo però che alla base del turismo “esperienziale” ci debba essere un Paese “esperienziale” in grado di proporre politicamente e realmente un nuovo modello di sviluppo alternativo, fuori dai circuiti offerti dal capitalismo “mercatista” e a cura di un nuovo capitalismo sociale innovativo per fare riflettere chi quell’esperienza vuole farla rivivere anche nella propria città. Occorre fare politicamente “scrusciu” (rumore) altrimenti “unni senti nuddu” (non ci sente nessuno) e proporre una nuova via per la sostenibilità del Paese (inteso come Italia) dove i singoli “paesi” giochino un ruolo centrale.
La Politica deve fare qualcosa per lo spopolamento dei paesi. A mio avviso, la strada non è quella di far diventare i nostri paesi un Albergo o Borgo Diffuso; certo è una possibilità, molto “fragile” però se mancano i servizi di prossimità essenziali (connessione Wi-Fi, servizi sanitari funzionanti, strade, pulizia, edilizia decorosa etc.) anche per il turista che fa un semplice giro per la Via Francigena. “Il paese muore ma vetrificarlo non è la soluzione” (Vito Teti), non è la soluzione “turistificarlo” con esperienze per ricchi annoiati che fuggono dalle Metropoli. Oggi la parola Sostenibilità ha cambiato significato perché “l’urbanizzazione rappresenta un’opportunità, le città attraggono talenti e investimenti, la concentrazione di persone favorisce un più rapido sviluppo di conoscenze” (Roberto Cingolani, Ministro Transizione Ecologica durante il Governo Draghi). Deve essere, quindi, chiaro che il sistema capitalistico non mira ai Borghi diffusi ma a Città di almeno 10 milioni di abitanti, soglia considerata ottimale per creare “tecno-ambienti sostenibili” come afferma il McKinsey Global Institute (vedi il libro Contro i Borghi di Filippo Barbera). Se questo è vero, prima di ogni altra cosa occorre una nuova coscienza “ecologica” e politica per non rassegnarci ai Borghi finti alla “Don Matteo“, illusi che possano dare “travagliu” (lavoro) a tutti ma che quasi sempre sono scollegati dal Territorio e dall’Economia circostante, per essere funzionali solo alle Metropoli appunto come alberghi dormitorio dove fare esperienze d’élite.
Occorre prima di tutto una Politica per i Paesi. Occorre politicizzare la Restanza. Occorre parlare di questi temi per smascherare la “falsa sostenibilità” che ci vuole stipati tutti nelle grandi metropoli. Per fare tutto questo, in “Voglia di Restare, Indagine sui Giovani nell’Italia dei Paesi” (a cura di Andrea Membretti e altri autori), viene messa in evidenza la necessità di una maggiore “empatia tra operatori del settore” al fine di portare avanti progetti di cooperazione per la formazione sulle ultime innovazioni sull’industria: nessuna “nostalgia regressiva” ma i valori del passato che alimentano la modernità. Inoltre, la formazione deve riguardare non solo l’ambito tecnico ma estendersi anche alla “capacità di lavorare insieme, condividere obiettivi, unendo le proprie forze per risolvere i problemi comuni”. È questa la vera sfida che i Giovani oggi devono affrontare: uscire dallo storytelling del “sistema”, ragionare con la propria testa, fare scelte veramente sentite. Fondamentale è però politicizzare questi temi perché “quello che i giovani non trovano è un mondo politico e amministrativo preparato e in grado di supportarli nelle loro sfide, un mondo che invece è più preoccupato dello scaricare le responsabilità piuttosto che guidare un rinnovamento dell’agricoltura” e dei paesi.
Politicizzare la Restanza vuol dire però andare oltre le politiche assistenzialistiche e/o di supporto come la Snai (Strategia nazionale per le aree interne) e ai vari fondi di sostegno ai comuni marginali. Occorre, infatti, promuovere un nuovo associazionismo tra ricercatori, studiosi, professori, scuole per fare education su questi temi e sopperire alle mancanze economiche e alla scarsità di competenze delle istituzioni Statali e Comunali (sempre più al “verde”). Occorre fare cultura imprenditoriale, attraverso associazioni come Riabitare l’Italia, appoggiare i giovani che hanno idee e accompagnarli con finanziamenti e con un adeguato supporto formativo nelle loro attività specifiche sul territorio di riferimento. Occorre adottare “altri sguardi” per “trasformare i vincoli in opportunità”, per vedere la rarefazione demografica come alternativa alla congestione urbana, in modo da costruire “Un Mondo a parte” sempre più sostenibile come auspica la protagonista del film quando riflette sul fatto che “noi essere umani saremmo fatti per non lasciare indietro nessuno e poi siamo diventati un’altra cosa. Qui anche una sola persona che non si rassegna va aiutata”. Buona visione e, per chi volesse, buon approfondimento con i 4 libri citati sul tema della “Restanza”.