I MONACI DEL DENARO di Vito Bianco

Tre film usciti nel primo mese dell'anno ci invitano a riflettere sulla ricchezza, o per meglio dire sul ''miraggio della ricchezza'' e sul suo potere di attrazione, capace di condurre gli individui che ne sono toccati (dominati) sulla via di un ascetismo rovesciato che ha come obiettivo l'abbraccio santificante col ''dio denaro'', il feticcio trascendente da cui è mosso chi si lascia tutto alle spalle per raggiungere la meta agognata - la ricchezza - che ha però lo strano, malefico sortilegio di non essere mai abbastanza, così come per il mistico medievale mai abbastanza vicino era il dio del proprio insoddisfatto desiderio.
Nel primo film del trittico, Nebraska di Alexander Payne, il tema del miraggio, che sta sullo sfondo, ha una ricaduta positiva perché dà a un padre e a un figlio la possibilità di conoscersi meglio nel tempo di un viaggio e di una permanenza nella cittadina dove il genitore è nato e a lungo vissuto; nel secondo e nel terzo, Il capitale umano di Paolo Virzì e The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese è invece al centro dei racconti, è il nucleo attorno al quale girano ora lente ora vorticose e instabili le vite dei personaggi, irresistibilmente catturate dalla forza ossessionante della ricchezza per la ricchezza, del denaro per il denaro, corpo mistico e tracciato digitale che domina le menti e visione salvifica che non fa dormire. Payne, come dicevo, mette in scena una storia domestica e lineare girata in un inconsueto bianco e nero, dove scorre e passa un'America minore e poco vista, fatta di strade larghe e silenziose e di locali dove si mangia alla buona e si chiacchiera aspettando un altro giorno uguale a ieri. E', si potrebbe dire, un ''Nebraska dell'anima'', una provincia universale dove vanno a finire i sogni andati fuori corso, come quello del vecchio Woody Grant (Bruce Dem) sicuro di aver vinto una fantastica somma e non c'è verso di convincerlo che così non è, che si tratta di un comune espediente pubblicitario. Allora tanto vale assecondarlo, pensa uno dei figli, David (Will Forte), il più riflessivo, il più simile a questo genitore che ha fama di inveterato egoista. E così si mettono in macchina e partono verso Lincoln, nello Stato del Nebraska, la fonte della ricchezza tanto inaspettata quanto illusoria. E sarà un viaggio dal quale entrambi, il padre beone e il figlio un po' troppo candido, ma capace di partecipe attenzione, torneranno cambiati: nel senso della scoperta reciproca e dell'affetto ritrovato, o per la prima volta, forse, sentito. Se in Nebraska il miraggio dei soldi innesca un imprevedibile processo di riconoscimento familiare, nel quale sarà coinvolta la disinibita madre, il fratello maggiore e una folla di parenti quasi dimenticati, e con essi l'intero paese caduto nell'inganno della vincita, nel Capitale umano del nostro Virzì (ma tratto da un bel romanzo dell'americano Stephen Amidon con lo stesso titolo) la stessa attrazione fatale funziona da fattore disgregante che costituisce la parte più solida e affidabile del valore umano richiamato nel titolo. Famiglie e legami affettivi vengono cancellati dall'ossessione – denaro e l'astrazione della potenza monetaria si mangia, come in un incubo, la concretezza della vita reale con le sua spiazzante imprevedibilità e l'insostituibile tesoro emozionale – l'amore, l'amicizia. Giovanni Bernaschi (Fabrizio Gifuni) è il monaco ottuso che rinuncia a tutto, che non ha tempo per niente tranne che per i giochi di borsa che incrementano il suo già notevole capitale; l'immobiliarista Dino Ossola (Fabrizio Bentivoglio) il suo sciocco ma duro catecumeno che gli sta sulla scia e rischia la rovina, economica e affettiva, nel tentativo di raggiungere una vetta dalla quale lo esclude la sua appartenenza di classe. Ai bordi della traiettoria speculativa stanno le mogli e i due figli, autodistruttivo per disamore il giovane Bernaschi, ancora capace di veri sentimenti non monetizzabili la ragazza figlia di Ossola, che ha nella seconda moglie del padre, Roberta Morelli (Valeria Golino) un rifugio amorevole e sicuro. La fredda vicenda dei due uomini in feroce e patetico inseguimento della ricchezza è ambientata nei freddi paesaggi del nord Italia stretti nel freddo e nella nebbia di un inverno ovviamente anche metaforico - soprattutto metaforico: una metafora che abbraccia il Paese intero – dove le esistenze, comprese le più vicine, la moglie, i figli, si toccano senza sentirsi e si parlano senza ascoltarsi e dove ogni cosa sembra subire il cattivo sortilegio del valore di scambio e viene misurata dal metro diaccio del profitto. E mentre in Payne l'illusione genera valore umano e profitto affettivo, in Virzì il profitto travolge l'umano e rimane profitto materiale, buono per comprare un terreno dove costruire palazzi o altri titoli, altre azioni intransitive, soldi che generano altri soldi. Lo stesso accade nel film di Scorsese che racconta la storia vera di Jordan Belfort (Leonardo Di Caprio, forse mai tanto bravo) dalla rivista ''Forbes'' soprannominato ''il lupo di Wall Street'', uno spudorato arrampicatore sociale che dopo il crollo della borsa dell'87 si mette in proprio e addestra un manipolo di venditori ai quali insegna l'arte di vendere fumo ai poveri malcapitati all'altro capo del telefono, perché, dice Jordan, non c'è americano che non voglia diventare ricco, proprio come voi. E dunque basta saper far leva su questo desiderio per riuscire a vendere qualunque cosa, compresa la spazzatura, cioè azioni di aziende che sul mercato legale non valgono più nulla. La macchina si mette in moto e la chiesa belfortiana cresce sino a diventare enorme, un entità anomala che gli analisti e i concorrenti cominciano a guardare con sospetto. Ma Jordan non ci bada e la Stratton, l'amata creatura forgiata dal suo inesauribile desiderio di conquistare, si direbbe, tutta la ricchezza del mondo, acquista proporzioni enormi, mostruose, come mostruosa è la cupida volontà di potenza del giovane Belfort, e del suo fidato socio Donnie Azoff (Jonah Hill) complice nei loschi affari e compagno di sfrenati bagordi, tra sesso, droga e cene luculliane. Jordan è quindi un Bernaschi totalmente abitato dai demoni della furia finanziaria, che ha portato alle conseguenze estreme l'ascesi rovesciata di un'esistenza completamente dedita all'accumulazione. Il suo deserto, il suo luogo spoglio per la meditazione e la vicinanza alla divinità sono i locali notturni e i ristoranti di lusso, templi profani dell'eccesso e dell'estremismo edonistico, spazi dell'esibizione tanto disperata quanto ingannevolmente liberatoria. A quella altezza (che mai è abbastanza) il piacere si muta nel suo contrario, e la ricchezza gira su se stessa e si annulla, si squaglia come neve nel palmo della mano. Belfort non gode più di niente, e proprio quando la sua ricchezza è ormai smisurata. Smisurata ma – ecco lo scacco – sempre accrescibile perché non è mai tutta. Ed è qui che la sfrenatezza del broker americano finisce col somigliare alla sorda sobrietà di Bernaschi che, circondato di lussi, dal lusso non si fa neppure sfiorare, monaco al servizio di un dio severo ed esigente, funzionario triste di un sistema che non conosce i piaceri del ''tempo libero'', tempo che per lui non può che essere denaro. Jordan si farà solo tre anni di galera, grazie a un sostanzioso sconto di pena che si è guadagnato collaborando con gli inquirenti; pena lieve ma più che meritata, e prezioso insegnamento autobiografico che il Jordan reale ha messo a disposizione dei lettori magistralmente rilanciato da Scorsese per amplificare la risonanza di un perfetto apologo sui tempi nostri, sul tempo in cui la fame di denaro divora qualunque cosa possa trasformarsi in profitto più o meno duraturo; Bernaschi risalirà la china dopo aver sfiorato il tracollo, e tutto si ricomporrà all'insegna della facciata rispettabile da mostrare agli amici e a i parenti invitati nella gran villa isolata con piscina: la moglie rassegnata, il figlio scampato all'accusa di omicidio colposo, l'antico teatro da mutare in appartamenti, e l'insonnia della ragione che continuerà a generare mostri invisibili, e nelle due provincie – quella italiana e quella americana – la vita andrà avanti come sempre fino al prossimo trauma, al prossimo scossone che non muterà nulla ma lascerà quasi tutti un po' più poveri e delusi, tranne il vecchio, traballante Woody che alla guida del suo nuovo pick up torna a casa, senza il premio ma più felice di quando era partito convinto che a Lincoln l'aspettasse la ricchezza.
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