LA GRANDE LUCE - UN RACCONTO di Tano Siracusa

Vincent van Gogh, 'Campo di grano con volo di corvi' (Wikipedia/pubblico dominio)V. guardò oltre la finestra  socchiudendo le  pupille, con la lenta, sospettosa curiosità di un gatto.  
Provava avversione per quegli animali inaffidabili, la cui unica regola di vita sembrava la ricerca di una incomprensibile soddisfazione. 
Ma come per i gatti i suoi tempi non erano governati dall’ora condivisa degli orologi, neppure per mangiare o dormire.  
Spesso scriveva e mangiava, a volte dipingeva in piena notte. 
Si era da poco svegliato in una stanza che non riconosceva, su un letto a una piazza e mezzo dove aveva dormito a lungo. Gli sembrava di avere trascorso un’enormità di tempo a sognare e adesso si sentiva uscito da un mondo appiattito, da una sconfinata superficie dove formicolava una luce verde e da vuote pareti dai colori smaltati, blu cobalto, ocra, arancio, azzurro oltremare, e quel rosso fiammeggiante, metallico, che sarebbe  piaciuto al francese, pensò all'improvviso. 
E le voci di nuovo che soffiavano nelle sue orecchie, gli insulti, le calunnie.
Su un tavolo accanto alla finestra c’era una Bibbia, una bacinella, una caraffa di vetro piena a metà d’acqua, e la sua pipa. 
Alle pareti erano appesi dei quadri di paesaggio, alla maniera di Corot, e il ritratto di una ragazza seduta, che fingeva di  sorridere stupidamente verso il fotografo. 
V., guardò di nuovo fuori, il cielo ancora bianco sopra i tetti delle case basse, il campanile della chiesa che gli parve leggermente inclinato verso destra. Il campanile di st. Bernard. 
Solo allora cominciò a ricordare. Certo, la ragazza della fotografia era Marianne, e forse prima di addormentarsi avevano fatto l’amore.  Poco dopo il piccolo specchio appeso accanto alla finestra incorniciò i suoi occhi azzurri, i solchi profondi  delle rughe sulla fronte  e  attorno  alla corta barba in fiamme. Sorrise e osservò ancora una volta incredulo i suoi denti guasti. Si ricordò non solo di solo Marianne, ma anche  delle altre ragazze che bevevano vino e assenzio e che anche lui aveva bevuto molto, come non faceva da due anni, da quel Natale  di due anni prima  quando tutto si era guastato; e prima che l’onda nera della nausea lo sommergesse aveva cantato e urlato, aveva pianto di felicità abbracciando la vecchia Hèlene, i piedi nudi di Giselle, un ussaro con degli enormi baffi impomatati che sembrava di legno. Aveva immerso il suo sesso in un vulcano spento. Poi in un denso fiume dove si era addormentato. Si ricordò di Marianne, i suoi capelli crespi e arruffati, da negra, come una nuvola minacciosa,  e un diavolo che le stava seduto accanto vestito di grigio e martellava il pianoforte e qualcuno che diceva conosco bene suo fratello, guarirà presto, è un bravo ragazzo.   
La fotografia somigliava poco a Marianne. Non c’era la sua anima, la sua allegria e la sua rassegnazione di contadina, non si vedevano il suo rancore, né la sua bontà. In quell’immagine irreale non era rimasto niente che le somigliasse davvero. 
V. detestava i fotografi e il loro successo. Quel loro essere così ‘moderni’ che lasciava indietro spesso carriere fallite di artisti, vite  di stenti  e umiliazioni. 
Le fotografie non potevano mai essere davvero somiglianti, non riusciva bene a capire perché, ma non potevano mai avere la verità di un buon dipinto. 
Soprattutto nei ritratti. 
Si lavò il volto nella bacinella, indossò la vecchia giacca che Kristov gli aveva regalato ad Anversa e che forse qualcuno oppure lui stesso prima di coricarsi aveva appeso ad un chiodo, uscì dalla stanza e scese le scale.
Al piano di sotto le imposte socchiuse lasciavano filtrare una luce polverosa. Nessuno aveva messo in ordine. Una sedia era rimasta  rovesciata accanto al divano di velluto giallo e i tavoli erano pieni di bicchieri e bottiglie. Sembrava che dopo la baraonda fossero fuggiti via tutti e che l’intera casa di madame R. fosse rimasta disabitata. Ricordava tutto ormai, Marianne, le altre ragazze, Victor, e prima ancora il dottore e sua figlia. Le chiacchiere del dottore per convincerlo a farsi fare un ritratto, la sorpresa del torchio a casa sua.  
E’ una brava persona il dottore, pensò V. spaesandosi sul marciapiedi sconnesso dove si attardava ancora qualche nottambulo. E’ una brava persona  anche se pure lui è malato, pensò. Solo che la malattia del dottore era meno grave della sua perché G. era uno studioso, stava scrivendo un libro sulla melanconia. Il dottore viveva studiando la malattia di cui soffriva.  
Aveva preso alla larga la questione del ritratto, aveva a lungo parlato del risveglio, di quella frazione di tempo che attraversiamo ogni volta svegliandoci, prima di ricordarci di noi stessi. Quella frazione minima di tempo durante la quale siamo ancora privi di una storia, di una identità con la quale subito dopo torneremo a coincidere. 
Per qualche tempo, gli aveva confidato il dottore nel giardino della sua casa, aveva creduto di potere estendere quell’attimo, di farlo durare il tempo di una vita, sia pure brevissima. La vita di un uomo senza identità, senza ricordi, senza rimpianti e rimorsi, senza altre persone da amare e da odiare. 
Voleva essere ritratto durante queste sue assenze da se stesso. Alla fine era riuscito a contagiargli un po’ del suo entusiasmo quando gli  aveva mostrato il torchio. 
V. pensò che il dottor G. era una uomo triste, come sarebbe apparso nel ritratto che aveva poi rapidamente graffiato sul metallo in meno di venti minuti. Un uomo così non può essere di aiuto agli altri, neppure quando vorrebbe esserlo. Lo aveva capito e lo aveva scritto subito a T.. 
Dovete concentrarvi sui ritratti, aveva insistito il dottore osservando su quella prova di stampa il suo stesso sguardo che non incontrava nulla da mettere a fuoco, che non rimbalzava sugli oggetti ma li attraversava disgregandoli.
E’ l’uomo, non la natura  a meritare tutto il nostro rispetto, diceva il dottore, e voi sapete guardare gli uomini con coraggio, andando subito all’essenziale, alla loro anima.  
Parlava infervorandosi e mentendo, perché il dottore non credeva nell’anima. 
Non importava che il primo quadro venduto da V. dopo dieci anni di attività e qualche migliaio di tele dipinte fosse un paesaggio. E neppure che i nuovi pittori a Parigi dissolvessero la figura umana nel paesaggio, assorbendola a volte come semplice macchia di colore: rimanevano dei grandi ritrattisti, sosteneva il dottor G., quelli che non avevano smarrito l’insegnamento di Ingres e quelli che erano andati oltre Ingres e il disegno, non solo D., anche i più giovani, quelli che osavano e come V. non vendevano, che andavano esplorando nuove frontiere. 
Aveva fatto dei nomi, ma il dottore aveva evitato di parlare del francese, che adesso si trovava in Bretagna. V. lo aveva apprezzato.  
Poco prima di andarsene il pittore francese aveva fatto un ritratto a V., lo aveva dipinto mentre dipingeva. Solo che il soggetto che V. stava dipingendo, dei fiori, non si vedeva. E di lato c'era lui, V., assorto, con in mano il pennello. Sono io, ma diventato pazzo, aveva commentato V. quando lo aveva guardato la prima volta.  Gli somigliava.  Anche se il disegno era semplificato, lo spazio attorno deformato, gli somigliava più di quanto gli potesse mai somigliare una fotografia.
Il  dottore evitava di parlare di quello che era successo negli ultimi due anni. Non parlava mai del francese, di quel Natale, e neppure della sua scelta di seppellirsi poi in un manicomio per quindici mesi.  
Non parlarne faceva forse parte della sua immaginaria strategia terapeutica.
Parlava invece di un articolo che un giovane critico di Parigi aveva scritto su V., segnalandolo come un artista - pressoché sconosciuto - che stava delineando il futuro della pittura, e degli elogi ai suoi quadri di un grande artista quasi cinquantenne, ormai famoso, della stima crescente dei giovani per il suo lavoro che il fratello e qualche amico da anni mostravano a collezionisti e pittori. Quadri che lo stesso V., aveva mostrato con entusiasmo nei due anni vissuti con il fratello a Parigi, e che allora non piacevano a nessuno. Li mostrava a chiunque anche lui allora, soprattutto agli amici più giovani, al nano, al giovane angelo biondo, al figlio di P., del vecchio P. che avrebbe sempre fatto la fame.

§

Adesso  V. aveva raccolto tutto ciò che aveva e gli serviva, due tele, i tubetti del colore, i pennelli, il cavalletto, un largo cappello di paglia, il quaderno e una matita, e aveva poi guardato dalla finestra la campagna oltre le ultime case. Vedeva solo giallo e qualche macchia di verde scuro, e in alto il blù scintillante del cielo dove viaggiava una grande nuvola sospinta dal mistral.
Sarebbe tornato a dipingere in quel campo dove gli ulivi sembravano contorcersi come fiamme agitate da quel vento di sibili e lamenti, di voci folli, irose.   
Il mistral lo esasperava. Spesso impastava la polvere ai colori ad olio, qualche volta faceva volare il cavalletto. Un pittore provenzale, C.,  che aveva conosciuto a Parigi aveva inventato un sistema ingegnoso per fissare il cavalletto a terra, ma V. non aveva avuto mai la pazienza  e il tempo per imitarlo. 
Spesso gli sembrava che il tempo non fosse abbastanza, che le giornate non fossero lunghe abbastanza e che i suoi quadri non valessero il tempo che impiegava a dipingerli.  
Uscì con il sole alto. Dopo gli ultimi orti il sentiero si inoltrava per i campi seminati a grano. V. lo percorse a grandi passi, nella direzione opposta a  quella che due mesi prima aveva seguito arrivando in paese.  
Era contento quella mattina. Arrivando a Au. quella mattina, su quel sentiero, dopo più di un anno di silenzio e di voci che lo spaventavano, di pittura furiosa, di visioni, allucinazioni, di  dolore, di stupefatta ottusità, quella mattina arrivando si era sentito in pace. Non era più l’euforia di dieci anni prima, quando gli era sembrato di potere conciliare il piacere e poi la smania di dipingere con  la sua vocazione religiosa, con il suo vivere da cristiano. Allora ritraeva le persone con le quali per anni aveva diviso il pane e le puttane, la disperazione, le preghiere e il dolore degli altri era stato per anni il suo. Anche il dolore del fratello, e anche il dolore di S., soprattutto il dolore di S., aveva creduto all’inizio. 
V. osservava l’orizzonte oscillare sotto le larghe falde del cappello, vedeva sobbalzare i mandorli rinsecchiti, i covoni. 
Non era vero, pensò. Aveva poi capito che bisognava scegliere fra l'arte e la realtà, fra la pena di S., fra la pietà per S., e la pittura.  Fra la vita dell'artista e quella del cristiano. Non si poteva avere una famiglia, dei figli, non si poteva provare quell’amore febbrile e inutile, quella passione astratta e sterile per la miseria di una donna sconfitta, e dedicare alla pittura ciò che la pittura pretende, il tempo che pretende, tutto il tempo che non è mai abbastanza. Per uno come lui, almeno, non era mai abbastanza. Infatti aveva scelto la pittura e aveva fallito. Finora almeno aveva fallito. 
Tuttavia da quando era arrivato ad  Au., da quella mattinata di due mesi prima, V. aveva la sensazione di un nuovo equilibrio. Erano scomparse le voci, le urla di S. e il suo furore silenzioso, quella stanza dove avevano vissuto due anni e dove la dipingeva. 
Erano passati otto anni da quando l’aveva  lasciata e sei mesi da quando aveva lasciato l’ospedale per i pazzi.  
V. appoggiò su un muretto a secco il cavalletto, accese la pipa, e si guardò attorno. Un volo di passeri si alzò improvviso da un covone di grano e subito dopo si udì lo sparo.
Cacciatori, pensò V.. Sulla sinistra, a cento metri, una vecchia stalla abbandonata offriva a volte ombra ai cacciatori di tortore. 
Mi ritrovo paesaggista, ma in realtà sono più abile nel ritratto, aveva scritto a T..  E ne aveva parlato a lungo al pittore francese durante quelle notti allucinate passate a bere e fumare al caffè della arlesiana.     
Adesso V. gli stava scrivendo una lettera, l’aveva con sé nel quaderno, gli chiedeva se poteva raggiungerlo in Bretagna durante l’inverno. 
Quel sole, quella luce, quei gialli di A. alla fine gli  avevano logorato i nervi, era vero. Suo fratello aveva ragione. Immaginava il bianco dei mandorli fioriti, il bianco della neve. 
Del francese ammirava soprattutto l’immaginazione, che a lui mancava, e ammirava la sua audacia e la fede che aveva in se stesso, nella sua arte. 
Rimaneva un quadro di quel loro incontro. Nella sua ultima lettera il francese lamentava la miseria materiale degli artisti, scriveva che continuando a non vendere avrebbe dovuto smettere di dipingere oppure avrebbe dovuto partire di nuovo verso le colonie. 
Per V. era diverso. La malattia gli impediva di andare troppo lontano, almeno per ora, ma non gli aveva impedito di dipingere. Di vedere e di dipingere. E di scrivere. 
Ma la cosa più importante era vedere: gli altri, i loro volti, le loro mani, tutto il loro dolore e la loro bellezza che era la stessa dei cieli, delle nuvole e delle stelle, dei cipressi contorti, di quella campagna d’estate che accecava e alterava i colori, spezzava le linee. Il francese dipingeva immaginando, inventando, lui invece doveva vedere.  
Anche se poi ciò che vedeva era quel vorticare delle forme, dei colori, e una grande luce che non riusciva mai a dipingere come avrebbe voluto. 
Di quel loro incontro era rimasto un quadro, uno solo, un suo dipinto realizzato su un disegno del francese. Era rimasto a testimoniare che neppure quel loro incontro disgraziato era stato per intero un fallimento, che quel quadro sarebbe rimasto, che loro due sapevano apprezzarlo.
Adesso aveva un’intera giornata per dipingere quei gialli, quei verdi, e il blu del cielo che non sarebbe mai stato uguale al blu dei cieli del suo amico, quei cieli delle isole.   
Il  mistral portò una specie di fischio e una risata, e subito dopo un altro colpo, di nuovo uno sparo. V. sventolò il cappello di paglia e subito dopo A. e B. si affacciarono barcollando sull’ingresso della stalla.  
Guarda chi si vede, disse il primo quando V. si fu avvicinato.  
Stanotte abbiamo fatto baldoria, disse B. agitando severamente il dito davanti ai suoi occhi chiari, che nell’ombra si erano spalancati. A. e B. erano completamente ubriachi, tutti e due. Avevano continuato a bere dopo avere lasciato all’alba la casa di madame. 
V. ricordava adesso che era stato assieme a loro che quella notte aveva cominciato a bere. Lo chiamavano pittore ma solo perché erano ubriachi, di solito lo chiamavano per nome storpiandone un po' il suono con l'accento gutturale della sua lingua.
Pittore, vuoi sparare anche tu un colpo? chiese A. agitando adesso sopra le loro teste  il fucile che B. cercava di strappargli. A. rideva e barcollava  imprecando contro l’amico, contro madame e tutte le sue puttane, imprecando poi anche verso V. che cercava di aiutare B. a   togliergli quel fucile. Poi diede col braccio uno strattone verso il basso. V. sentì il dolore molto tempo dopo lo sparo, un dolore sopportabile, almeno così gli sembrava tornando verso casa. 

Nel suo quaderno, qualche giorno dopo, suo fratello avrebbe trovato la lettera che Vincent non aveva finito di scrivere al pittore francese.

'‘Mio caro amico Gauguin, grazie per avermi scritto ancora, mio caro amico, e sappia che da quando sono tornato l’ho pensata ogni giorno. Sono rimasto a Parigi tre giorni soltanto perché il rumore parigino etc., così fastidioso per me, mi ha convinto a tornare ancora in campagna. Altrimenti sarei venuto da lei. E sono veramente contento che il ritratto dell’arlesiana, basato su un disegno, le sia piaciuto.  Ho cercato di essere rispettosamente vicino al suo disegno, pur consentendomi la libertà di interpretare con il colore la sobrietà e lo stile del disegno stesso. Se vuole, è quasi una sintesi di arlesiana. E poiché le sintesi di arlesiane sono rare, la consideri un’opera sua e mia come frutto dei mesi vissuti insieme.
Per farlo ho pagato con un mese di malattia, ma so che il quadro verrà compreso come noi desidereremmo, solo da lei, da me e da pochi altri...
Ora ho un ritratto del dottor Gachet con l’espressione afflitta, tipica del nostro tempo. Se vuole, si tratta di qualcosa di simile al suo Cristo nel giardino degli ulivi, cioè una cosa destinata a non essere capita. Comunque fin là io la seguo e anche mio fratello comprende queste sfumature.''

 

—————
Nel 2011 è uscito un libro dal titolo "Van Gogh: The Life", scritto da Steven Naifeh e Gregory White Smith, biografi e vincitori di un premio Pulitzer. In quest'opera, i due studiosi sostengono l'ipotesi che Van Gogh non si sia suicidato ma sia stato ucciso da un ragazzo del posto.
Purtroppo il volume non è stato tradotto e pubblicato in Europa.
Nel racconto, che si ispira a questa ipotesi biografica, Gachet, Pissarro, Theo, Sien, Cezanne, Degas sono indicati con le iniziali.

Tags: