STORIA DI BANJO, UNA VITA IN FUGA di Alessandro Riccardo Tedesco

Vincere è un'abitudine chi ha già vinto vincerà di nuovo

niente mi fermerà, Dio è il segreto della mia vita.

È da un mese che la osservo. Che prendo ad occhio le misure, che seguo il suo sviluppo. La linea che dall’angolo sinistro della finestra sale su fino al solaio e poi procede sulla risega del pilastro. Millimetro dopo millimetro ogni giorno corre, non si ferma, e se dovesse scendere e fare il giro dello stabile, chissà che non possa crollare tutto.

Ma non me ne intendo nulla di ingegneria, quando ero piccolo aiutavo mio padre e mio fratello a costruire nuovi pezzi di casa, ma solo quando non andavo a scuola. Io ho sempre voluto studiare e mio padre me ne ha dato la possibilità. E in questa aula ci studio: è l’aula dell’Istituto di Economia dell'Università Cattolica di Abidjan. Siamo in 21 in questa aula, tutti maschi. Le ragazze le incontriamo in biblioteca o nelle ore di pausa, fuori, nel parco. Studio economia e finanza, voglio aiutare mio padre nella sua attività: coltiviamo cacao. Ma io voglio avviare l’azienda commerciale come una vera impresa, come quelle francesi, i padroni, e aiutare la mia famiglia e il mio paese a emanciparsi, perché la Costa d’Avorio è un grande e ricco paese.

Ma questa è una storia che si è conclusa, un sogno andato in fumo, ora vi racconto com’è davvero andata.

Il mio nome è Banjo Saul nato il decimo dicembre millenovecentonovanta a Koumassi, figlio del signor Banjo Émile e Gbondo Zoh Juliette. Mio padre era una guardia carceraria e mia madre casalinga.

Sono ivoriano e vengo dall'ovest della Costa d'Avorio di Blolequin e precisamente dal Petit Guiglo. Il mio gruppo etnico si chiama “guéré”. La mia vita è cambiata nel novembre 2013 quando i miei ospiti sono diventati i miei tormentatori: i miei genitori sono stati uccisi dai burkinabé che ci hanno spogliato della nostra terra quando eravamo rifugiati in Liberia dal 2011 al 2012.

La guerra civile in questi due anni ha fatto solo nel mio paese 3000 morti. Una guerra che ha voluto il presidente Alassane Outtara, messo lì dalla Francia; un presidente non ivoriano, originario del Burkina Faso. Il mio paese così è diventato preda dei burkinabé, che hanno iniziato a circolare con i loro eserciti nell’ovest della Costa d’Avorio a depredare e uccidere. Laurent Gagbo era un buon presidente, molto buono, l’uomo che gli ivoriani avevano scelto nelle elezioni del 2000 per portare avanti la politica di “réfondation” che ci aveva proposto. Ma la rifondazione ha dato fastidio a molti interessi in Costa d’Avorio e altrove nel mondo, e alla Francia.

Il cacao. Dietro la guerra civile c’è il cacao: miliardi di dollari e un signore africano che porta il nome di Loïc Folloroux, un giovane, il figlio di una donna algerina, la moglie del presidente Outtara; e una multinazionale, che non è francese ma inglese e il padrone è un uomo ben conosciuto dai noi produttori di cacao, perché controlla di persona i raccolti, controlla i porti, ed è capace di sapere dove, quanto e quando si produrranno le fave di cacao. Ha pure un esercito personale per controllare tutto: i coltivatori sono nelle sue mani.

Quando i miei genitori dopo due anni sono tornati dall'esilio la guerra pareva finita, ormai Outtara aveva stabilito il suo ordine in tutto il Paese. Ma mio padre e mia madre hanno trovato la nostra casa occupata dal signor Compaoré e altre persone del Burkina Faso. Si sono stabiliti sulla nostra terra sostenendo che mio padre gli avesse venduto tutto il suo patrimonio: 20 ettari di terreno coltivato ad alberi di cacao ed una foresta pluviale ben più grande. A noi non era più permesso di coltivare la nostra terra. No, mio padre non poteva accettarlo, conosceva quella gente, sono dei criminali, quella terra apparteneva alla mia famiglia da duecento anni, la nostra etnia è nata in quella foresta pluviale, e ogni albero di cacao, ogni pianta è stata bagnata col nostro sangue. E lui non era il tipo che si potesse arrendere facilmente, così andò alla prefettura di Bloléquin denunciando la violenza nei nostri confronti: riuscì ad ottenere un atto di citazione contro il signor Compaoré e dopo pochi giorni siamo rientrati nella nostra casa di campagna.

Ma la sera stessa è successo tutto: all’una di notte circa abbiamo ricevuto la visita dei combattenti dozo, erano già dentro casa ma mia mamma ebbe il tempo di correre da me e spingermi fuori da casa:

Scappa subito figlio mio, scappa veloce, non voltarti e non tornare più. Che Dio sia sempre con te. - E mi diede il suo rosario, e un bacio in fronte.

Mio fratello fortunatamente era a Daloa, io da solo sono fuggito più veloce che potevo, correndo nella foresta e pochi minuti dopo sento gli spari e lo stridere delle fiamme provenire da casa nostra.

Quando sono tornato dalle mie ore di nascondiglio, non c’era che fumo e dei piccoli fuochi che divampavano qua e là tra le rovine della casa ridotte a braci ardenti e cenere dove si infilava il vento umido proveniente dalla foresta: l'intera casa aveva preso fuoco, mi facevo strada con un bastone attraverso i detriti, i frantumi, le schegge che incontravo in quel tormento, finché la luce della torcia non vede i corpi dei miei genitori tra le braci: erano più neri di come li avessi mai visti in vita e gli si vedevano le costole e le ossa del cranio, la pelle era tutta bruciata.

Sono rimasto non so quanto tempo gelato a guardare la cenere, senza capire, senza potere capire, finché il terrore non mi assale, e scappo, scappo correndo, senza fermarmi, sfuggendo ai cani dei burkinabé che fiutavano le mie orme nella foresta, sfuggendo agli spari, nascondendomi alle pattuglie dei dozo che intanto massacravano altri guéré prima facendogli cantare inni a Outtara poi sgozzandoli, colpevoli di avere votato il presidente sbagliato, corro fino a raggiungere la città di Guiglo, vicino al confine con la Liberia.

Salvo, dalle torture, dal massacro, più che dalla morte.

Bah aveva frequentato insieme a me il liceo: licée Antoine Gauze Daloa, il più grande della regione ovest, il migliore. E’ stato un periodo bellissimo quello, lì ho conosciuto la mia ex moglie, ho avuto un figlio da lei: Hamadou ha sette anni, vive ad Abdjan con lei.

Era giorno quando mi sono presentato al negozio dei genitori di Bah, lavorava con loro a Guiglo.

Ero distrutto, sfinito. Finito

Ho vissuto con la famiglia di Bah fino alla fine del 2013, quando mio fratello maggiore mi richiama in Costa d’Avorio per riprendere l’attività di famiglia e iniziare a ricostruire la nostra vita: era intanto tornato dalla Liberia e riuscito a riavere il nostro patrimonio grazie all’esito del processo che ha riconosciuto i crimini da noi subiti.

Pochi giorni dopo il mio arrivo a casa, mio fratello viene assassinato in un presunto “incidente motociclistico” nei pressi del fiume Douhi; non mi restava che tornare in Liberia, dal mio amico Bah, dove viveva per salvarmi ancora la vita.

Anche se la guerra civile era terminata nel 2012, le violenze nel mio Paese sono continuate, soprattutto nella zona a ovest dove sono presenti le piantagioni di cacao e la foresta pluviale. I guerriglieri del presidente Ouattara, cioè la Forces Nouvelles, che poi il presidente ha legalizzato come corpi speciali dell’esercito ivoriano, si sono impegnati per lui e ucciso i proprietari delle principali piantagioni, quasi tutti appartenenti all'etnia di Gbagbo, i bèté. Qui in occidente si è parlato di una pulizia etnica, invece nasconde interessi economici troppo grandi, una crudele espropriazione delle terre e del cacao, anche per noi, i guéré.

Non c’è più posto per me nel mio Paese, nulla da fare, né per me né per tutta la mia etnia, non resta che andarmene fuggire, scappare, continuare a correre.

Insieme a Bah ci siamo trasferiti in Guinea, siamo stati parecchio tempo lì io e lui, abbiamo lavorato insieme e abbiamo conosciuto tante persone tra cui il signor Barry, una specie di imprenditore edile che viveva in Algeria. Così arriva il giorno che decidiamo di lasciare la Guinea e raggiungere il signor Barry. Siamo arrivati ​​in Algeria il 20 novembre 2015 e il nostro alloggio era una casa grezza, senza porte né finestre: il nostro compito era finire la casa; il signor Barry non ci dava stipendio, dal momento che dovevamo rimborsargli il viaggio dalla Guinea all'Algeria che aveva pagato per noi. In cinque mesi di duro e ininterrotto lavoro avevamo finito di ripagarlo, ma lui non ha consentito che andassimo via. Solo i soldi per il cibo, per curarci e comunicare. Abbiamo continuato a lavorare in quella casa fino a giugno 2017, quando il sig. Barry ha deciso che il nostro debito era pagato e avevamo lavorato abbastanza per meritarci anche il viaggio per l’Italia. La nostra prima tappa per la Libia sarebbe stata Debdeb, l’ultima città algerina a nord prima della Libia.

Due giorni di viaggio, prima in autobus fino alla grande città di Ourgla, poi in pick-up con gli arabi fino ​​in una zona della città di confine dove tutto era in costruzione: polvere, calcinacci, scheletri di case, e in uno di questi scheletri, in una stanza ricavata tra pilastri con pareti di cellophane e un tetto che era il cartellone pubblicitario della compagnia telefonica Orange, siamo stati ospitati. Stremati, sfiniti, con il sole al tramonto, senza neanche cibo se non un po’ di kesra duro rimastoci dalla partenza, ci siamo addormentati circondati dalle macerie di quella che sembrava una città dell’apocalisse. E apocalisse fu: durante la notte riceviamo la visita di uomini armati che ci trasferiscono in un'altra casa. Un viaggio interminabile, cinque giorni su un pick-up senza acqua né cibo, solo i resti dei loro pasti: quello che restava, quello che riuscivamo a recuperare e che ci dividevamo tra noi, foss’anche solo il sudicio unto del tajin.

Un mattino aprendo gli occhi ci rendiamo conto che siamo al chiuso, una casa, ma stavolta ben protetta da tetti, muri e spranghe alle finestre: una prigione. Gli arabi ci derubano di tutto e ci chiedono di chiamare i nostri genitori se vogliamo lasciare vivi quel posto. Ma io, chi dovrei chiamare? Chi? Non, ho più genitori né parenti e il signor Barry, il mio padrone in Algeria, il suo numero risulta sconosciuto.

Ho passato cinque mesi in prigione a Zouhara. Ho lasciato la prigione nel novembre 2017 quando gli stessi nostri carcerieri hanno distrutto la prigione perché l’esercito libico aveva scoperto questo posto. Sono scappato, ancora a correre senza meta, ancora solo, con il terrore che mi assaliva, ancora. Mi sono ritrovato in una casa a Zahuyah con un amico di nome Morry con cui avevo condiviso la prigione. Lui già conosceva qualcuno in Libia, e insieme a lui ho lavorato per due mesi riuscendomi a pagare il trasporto in Italia.

Ho perso Bah, non so dove sia oggi il mio amico.

Ho ritrovato Mavi, la donna che amo.

Io sono sopravvissuto a tutto, e sono qui in Italia, sono salvo, e ancora corro.

Corro, ancora, senza fermarmi, come quella linea sul muro.