SUL GUARDARE FOTOGRAFICO di Tano Siracusa

Il clic del fotografo è come una puntura di spillo, diceva più o meno Cartier Bresson. La sua era una reticente ammissione di colpevolezza, raramente dichiarata dai fotografi.

Bufalino avvertiva attorno alla camera oscura odore di zolfo, confermando la cattiva reputazione dei fotografi, associati spesso ai ladri o addirittura ai killer, o a meno luciferini ma  altrettanto biasimevoli profittatori, estetizzanti le disgrazie altrui, a volte anche solo quella di avere un certo volto, una particolare espressione.

Quel senso di colpa del fotografo, consapevole o rimosso, rimanda alla costitutiva infedeltà della ripresa fotografica, a quel mimetismo che aveva sbalordito il pubblico per quaranta anni e che l’invenzione del cinema, della ‘fotografia in movimento’, aveva poi   rivelato nella sua astrattezza e irrealtà.

Nell’immagine fotografica infatti il tempo è assente. Immersi nello spaziotempo, l’astrazione spaziale ci appare, come nella pittura, fondamentalmente artificiale, linguistica.

In quella in movimento invece la riproduzione temporale è talmente mimetica da far supporre a Pasolini che un piano sequenza fosse un doppio indistinguibile dall’originale, in una sorta di paradossale azzeramento del carattere linguistico, artificiale, del cinema, messo in scena ad esempio da Sokurov nel sontuoso, unico piano sequenza de 'L’Arca russa'.

Se si restringe il campo alla ritrattistica o al reportage che mette in scena corpi e volti, non è difficile comprendere la prevedibile reazione di chi subisce il ‘colpo di spillo’ per trovarsi poi inevitabilmente ’ignoto a se stesso’ di  fronte alla propria immagine caduta fuori dal tempo.

E’ l’immobilità, l’assoluta coincidenza con se stessa dell’immagine fotografica, a non poter mai essere somigliante a un volto, che non è mai identico a se stesso.

La ‘forma’ e ‘la vita’ scriveva Pirandello, e l’impossibilità per la prima di riconoscersi nella seconda.

Non sarebbe dunque tanto il furto di sé che il fotografato patisce, ma la pretesa altrui che quella immagine gli somigli, che quel volto, quel corpo che vanno in giro  al suo posto come i ‘doppi’ di Gogol e Dostoevskij, siano suoi, siano lui.

La principale strategia di neutralizzazione dello sguardo fotografico è naturalmente la posa, che sembra offrire una definitiva via d’uscita all’impotenza del fotografato attraverso l’autoscatto, dove osservatore e osservato coincidono.

C’è infatti uno strato ulteriore di ragioni che mobilitano i sensi di colpa del fotografo, ed ha a che fare con il guardare, con gli sguardi. Lungo lo sguardo si polarizza l’opposizione fra la soggettività di chi guarda e l’esserne l’oggetto per chi è guardato. Nella vita reale le posizioni dei due poli si scambiano e rovesciano continuamente nel loro contrario: ciascuno guarda ed è guardato, è soggetto che proietta nello spazio esterno la sua esperienza visiva ed elemento della esperienza visiva degli altri nel loro spazio esterno. Ma il reciproco riconoscimento dei soggetti è la premessa di una socialità sempre a rischio, che può fallire. Chi guarda  espone al rischio chi è guardato. 

‘Guardar’ in spagnolo significa custodire, tenere a bada, come in molte lingue regionali del Mezzogiorno. E ciò che meglio si controlla sono le cose, gli oggetti. Oppure sono gli altri ma come soggetti negati, degradati a cose, a oggetti, a prigionieri. Oppure come inchiostri e pezzi carta, fotografie.                                                                                                                                                             D’altra parte in Italiano abbiamo ‘guardia’, ‘guardiano’, etc., a trattenere l’implicazione del proposito di dominio che può correre lungo lo sguardo, fino alle oltranze del carceriere o del sadico.

Ma l’equilibrio e la reciprocità degli sguardi si interrompano già davanti al volto e al corpo immobili di una fotografia. Lo sguardo che ci fissa è spento, chi ci guarda non esiste più, ed è proprio quella fotografia a rivelarlo. Alla vita il fotografo ha sostituito qualcosa che sembra il suo rovescio, il suo contrario.

Una verifica empirica di questa ipotesi viene offerta dalla sostituzione del clic fotografico con la durata delle riprese in movimento. Alla puntura di spillo si sostituisce una specie di pressione, magari non gradita, ma assai meno fastidiosa e ormai quasi inavvertita nel brillio universale dei cellulari.

Insomma l’occhio della videocamera suscita minori reazioni, diminuiti sensi di colpa e maggiore facilità nelle riprese: chi viene filmato avverte che il tempo, la durata della ripresa, anche se di pochi secondi, gli renderà giustizia se non per l’oltraggio subìto nell’essere mostrato ‘da fuori’, almeno per la somiglianza con l’immagine chimerica che ha di se stesso, perseguita negli autoscatti, e che suppone gli altri abbiano di lui.

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