LE TREPIDAZIONI DI MONTALBANO PER IL SUO AUTORE di Enzo Di Vita

La notizia la portò Fazio, in tarda mattinata, entrando nel suo ufficio col visto stravolto e senza neanche bussare. 
«Lo hanno ricoverato d’urgenza in ospedale. Ha avuto un arresto cardiaco. È grave.»: e non ci fu minimamente bisogno di specificare di chi stesse parlando. 
Montalbano rimase immobile, inchiodato alla sedia, incapace anche di parlare, vedere, sentire, di pensare, addirittura. Era come ibernato. Dopo una quantità di tempo che non seppe misurare, si vide alzarsi e, con naturale lentezza, attraversare l’ufficio e il commissariato, uscire all’aperto, salire in macchina, mettere in moto, dirigersi verso il porto, parcheggiare, spegnere il motore, scendere e cominciare a camminare verso il molo di levante: il tutto muovendosi come un automa, senza volontà né sentimento. Giunto sul molo, principiando una delle sue

consuete camminate «un pedi leva e unu metti», finalmente cominciò a riacquistare l’uso dei sensi e la capacità di riflettere e di ricordare. E realizzò quel che Fazio gli aveva detto prima: il suo Autore era in pericolo di vita. 
Si ricordò immediatamente di quando – pagine e pagine prima – aveva ricevuto la lettera con la quale il signor Prestifilippo gli comunicava la grave malattia e l’imminente morte del padre. Da quella notizia era stato sorpreso e addolorato. E, cercando di fare un paragone tra le due reazioni, doveva concludere che tanto la sorpresa quanto il dolore erano maggiori in quel momento. Perché malgrado fosse novantino passato, e avesse i ben noti problemi alla vista, che il suo Autore potesse morire da un momento all’altro Montalbano non lo aveva mai considerato. Aveva sempre pensato alla sua morte come a quella dei vecchi di una volta, che si spegnevano lentamente come una candela, e come una candela fino alla fine erano capaci di fare luce. E, pronunciandosi nel cervello la parola “luce”, quasi ne fosse davvero illuminato, Montalbano comprese di essere non solo addolorato e sorpreso, ma anche impaurito. E provò vergogna di questa sua paura: una paura egoistica, la paura del personaggio Salvo Montalbano, nato a Catania il 6 settembre 1950, dirigente del Commissariato di Polizia di Stato di Vigata, Questura di Montelusa. Fino a quel momento. Ma poi? 
Il suo Autore aveva fatto morire suo padre mentre lui, Salvo, era impegnato in quella complessa indagine che fu poi detta de “Il ladro di merendine”. Gli tornarono in mente due cose: che in quell’indagine, durante una pausa che si era concesso proprio a seguito della notizia delle gravi condizioni del padre, aveva conosciuto il cavaliere (non cavaliere) Liborio Pintacuda, professore di filosofia in pensione; e che la copertina del libro, che da quella sua indagine era stato pubblicato, aveva in prima pagina un bellissimo dipinto – che sempre moltissimo gli era piaciuto – raffigurante un uomo che vendeva palloncini. Ecco. Filosofando sulle sue sensazioni di quei momenti come avrebbe fatto il cavaliere (non cavaliere) Pintacuda, Montalbano capì che l’Autore, come l’uomo del quadro, teneva per mano legati ad un filo, come palloncini, lui, Mimì, Fazio, Livia, Pasquano, Catarella, e anche il questore Burlando, e anche Gegè, suo padre… Che fine avrebbero fatto? Avrebbero volato da soli? Fino a quando? E in gruppo, o separatamente? E fin dove sarebbero arrivati, col loro volo, quando non ci sarebbe stato più quell’uomo, che li gonfiava costantemente? Si vergognava un po’ meno ora, della sua paura, perché la preoccupazione non riguardava solo sé stesso ma anche gli altri suoi compagni di avventura. Però si vergognava lo stesso, come se stesse facendo un pensiero cattivo, o una brutta azione. 
Si sentì sollevare, come se davvero fosse diventato un palloncino e venisse trasportato da una folata di vento. Percepì di non essere più coi piedi per terra, vide il molo sempre più piccolo, provò paura indescrivibile. 
Si ritrovò in penombra, in una stanza che gli parve subito una camera d’ospedale. Comprese che era la camera dove, attaccato a macchine da tubi e tubicini, Andrea Camilleri lottava per la sua propria vita. E, con sua enorme meraviglia, non ebbe paura di trovarsi accanto ad un uomo in pericolo di vita, come sempre gli era accaduto in passato: era ancora impaurito per quell’altra cosa, ma di trovarsi lì, no: al contrario, si sentì quasi rasserenato. Al punto che, senza pronunciare una sola parola, cominciò a parlare con Andrea Camilleri. Anzi: fu Camilleri a parargli per primo. 
«Salvo, figliu mio, non devi essere scantato» 
«Ora ca sugnu cu vossia, nun sugnu scantatu». 
«Salvo, farfantarie a mia non ne puoi diri. Iu ti canusciu di dintra e di fora. E so che sei scantato per la tua vita, per la tua esistemza. Ma nun t’a a scantari, ti ripeto: a differenza mia tu non sei destinato a morire.» 
Lo spirito polemico di Montalbano non lo abbandonava mai: neppure in quel momento. E, nonostante si sentisse in qualche modo tranquillizzato da quello che l’Autore gli aveva appena comunicato, si rese conto che la cosa dell’essere destinato a non morire si preannunciava come una potenziale, grandissima rottura di cabbasisi. 
E allora: «Supponiamo che io non sia d’accordo a non dover morire...» 
«Talè, Salvo, nun ti vinissi in testa di attaccare turilla cu mia. Tu non morirai, ho detto: né tu, né Mimì, né Fazio… e mi dispiaci diritillo, manco Livia.» 
E gli fece i nomi e gli esempi di Don Quijote e Sancho Panza, di Jim Hawkins, di Guglielmo da Baskerville, del professor Laurana… 
«Giusto giusto Laurana mi porta come esempio? Che finisce ammazzato com’un cani?» 
«Gran potenti camurria, Salvo… Comunque hai capito. Dico bene?» 
«Dice bene. Ma vossia, però…» 
«Non ti devi scantare per me. La mia strada l’ho fatta. Come dice quel libro “ora è il tempo di sciogliere le vele”» 
«Ma vossia a ssu libru non ci crede» 
«Sempre libro è. E nei libri ci credo. Perché credo nell’uomo. E come diceva Nanà, all’uomo, all’uomo umano, non resta altro che la letteratura per riconoscersi, per riconoscere la verità. Comunque, lassammu perdiri ‘sti cosi. Turnammu a tia. Tu mi devi promettere due cose. Uno, che ora ti nni va e ti va a fari ‘na bella mangiata. Due, che a tutta questa gente, che accamora mi sta subissannu di mali paroli, sul web la lassi perdiri. Iu mi nni staiu futtennu.» 
«Che viene a significare sta cosa? Di quali gente parla?» 
Buio. Silenzio. Di nuovo la sensazione di volare. Ma a scendere, stavolta. 
Si ritrovò seduto sulla sua sedia, in ufficio, con Fazio davanti a lui. Possibile che avesse sognato tutto? 
Volle fare una prova, intuendo quello che l’Autore aveva voluto dirgli con quelle ultime due frasi. 
«Fazio, dimmi una cosa. Ma è vero che proprio in questo momento c’è gente ca sta dicennu mali parole sul web a ‘u ziu Nenè?» 
Fazio lo taliò imparpagliato. E, per un istante, Montalbano temette – o sperò? – di avere davvero immaginato, sognato tutto. 
«Commissario, mentri vossia… pinsava io restai qua, e non lu sacciu. Nenti di più facile, però. C’è genti fitusa nel web… Aspittassi ca lo vado a spiare a Catarella.» 
Niente di più facile, aveva ragione Fazio. Dopo che Camilleri aveva apertamente criticato, e più volte, l’operato del ministro Taschini, che da tempo si cassariava vasannu Vangeli e cruna di Rosario, ma al tempo stesso conducendo politiche che nenti avivano di cristiano, era da attendersi che, ora che Camilleri si trovava in condizioni critiche, questi… sciacalli ne approfittassero per vomitargli addosso veleno. Un po’ come quando, in tante carceri italiane, nel tardo pomeriggio del 23 maggio 1992 ci furono brindisi e festeggiamenti. 
Catarella entrò nell’ufficio da par suo, facendo come una Maria. E confusamente riferì come e qualmente – volendo approssimarne a parole nostre una sintesi – appena diffusa dagli organi d’informazione la notizia del ricovero in gravi condizioni del noto scrittore Andrea Camilleri, una pletora di leoni da tastiera aveva iniziato a scrivere insulti e gastime nei suoi di lui confronti. 
«Puro il signore e quistori di persona personalmente telefonò, arraggiatissimo, spianno di vossia di persona personalmente per farici sapiri che si sta occupanno della facenna. Disse ca dese incarico alla polizia postale di arricanoscere cu sunnu ‘sti quattru fitusi» 
Montalbano non aveva sognato, dunque. Né la brutta notizia, né le cose che l’Autore gli aveva detto. E, dunque, doveva mantenere le promesse. 
«Il dottor Augello è in ufficio?» 
«Sissi dottore» 
Andò nella sua stanza. Pure Mimì era visibilmente dispiaciuto. Senza dargli troppe spiegazioni, lo pregò di chiamare il Questore e consigliargli, in un modo o nell’altro, di non occuparsi troppo di questi insulti. 
« È gente ca nun merita importanza, Mimì. Spiegalo a Bonetti-Alderighi» 
«Ma perché non ci telefoni tu stissu, Salvo?» 
«Perchè me ne vado a mangiare» 
Mangiò due abbondantissime porzioni di antipasto di mare, una pasta al nero di seppia che avrebbe sfamato una famiglia, un’orata ai ferri che gli lasciò in bocca il sapore del mare: ogni promessa è debito, si disse. 
Di tornare subito in ufficio non era cosa, in quel momento. Si sentiva appesantito dalla gran mangiata, e voleva riflettere tanticchia su tutto quello che era successo. Si diresse al molo di levante per la solita passiata meditativo – digestiva. E non fu meravigliato più di tanto di trovare posteggiata la sua auto lì nei pressi, dove l’aveva lasciata un paio d’ore prima. 
Verso le quattro del pomeriggio, dopo un’oretta di sonno e un caffè di tutto rispetto, fece la sua comparsa in ufficio. Augello lo attendeva, scurissimo in volto. 
«Mimì, chi fu? Il questore non volle sentiri ragione?» 
«No, Salvo. Il questore si convincì immediato. Secunnu mia non aspettava altro. Credo che sia arrivata qualche telefonata da Roma che gli ha raccomandato prudenza.» 
«E certo… È per questo ca sì arraggiato?» 
«No. È perché ho letto le cose che ha scritto Littorio Peltri su di tia.» 
«Peltri? Ma chi? Il direttore di “Illuso”?» 
«Iddu.» 
«E chi scrissi?» 
«Ora ti leggiu. Senti, senti cca.» 
E gli lesse un articolo che si concludeva con queste palore: “Oggi, di fronte alla probabilmente prossima fine, riconosciamo allo scrittore ogni merito tecnico e a lui ci inchiniamo. L' unica consolazione per la sua eventuale dipartita è che finalmente non vedremo più in televisione Montalbano, un terrone che ci ha rotto i coglioni” 
Montalbano riflettè immediatamente su una cosa. E cioè a dire che, mentre contro il suo Autore faceva tutto un gioco di fioretto, a trasi e nesci, gli insulti pesanti Littorio Peltri li riservava a lui, a Salvo Montalbano. E, dunque, ciò non rientrava nella seconda cosa promessa a Camilleri. 
«Mimì, fammi un piacere. Telefona a quell’amico tuo che travaglia all’aeroporto di Catania e fammi trovare un posto sul primo volo per Milano di domani matina. Poi me ne fai un altro: telefoni a quell’amica tua che gestisce un albergo a Catania e mi fai fermare una cammara per stanotte. Io domani in ufficio non vengo. Pensaci tu. Me ne vado» 
«Salvo ma che vuoi fare?» 
Arrivò a Milano Malpensa che erano quasi le nove. Al tassista chiese di portarlo in centro, alla sede di “Illuso”. Durante tutto il tragitto il tassista non gli rivolse una sola parola, e Montalbano gliene fu grato. Quando arrivarono e fece per pagare, l’uomo, azzerando il tassametro, gli disse: 
«Commissario, se permette, offre la casa» 
Montalbano strammò. 
«Ma…grazie… ma… perché?» 
«Perché ho capito che cosa voli iri a fari alla redazione di “Illuso”. E ci dico: qualisisiasi cosa fa, la facissi puru pi mia» 
Salì in redazione, si presentò, chiese del direttore. Dovette fare tanticchia di anticamera, ma alla fine lo fecero entrare nell’ufficio di Littorio Peltri. Che, visto da vicino, era ancora più smunto e ladio che visto in televisione. 
Montalbano lo fissò a lungo negli occhi. Peltri più volte non ne resse lo sguardo. Infine, scandendo ogni singola parola con la mano destra, pollice ed indice piegati a descrivere un cerchio, le altre dita ben tese, il commissario Montalbano disse: 
«Iu mi nni staiu futtennu». 
Ed andò via. 
(Mi auguro che Andrea Camilleri voglia citarmi in giudizio per appropriazione indebita di personaggio. Ne sarei felice: perché ciò implica il suo ritorno alla piena attività. Glielo auguro. Me lo auguro.)

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