LA SOLITUDINE DEL PRETE CON SAN CALO' di Giacomo La Russa

Il santo nero è ancora al suo posto, nella nicchia alle spalle dell’altare, con il mantello, il lungo bastone e il libro, freddo e impassibile. Tra poco sarà liberato per essere consegnato ai portatori che, con la vara, irromperanno in chiesa, se ne approprieranno e lo trascineranno per la città antica. La navata centrale è stata svuotata, i banchi spostati in quelle laterali. Fuori, come d’abitudine, la folla attende, distribuita nello spiazzo antistante, sulla scalinata, attorno alle ringhiere di ferro. Per la prima volta è stato fatto divieto ai ragazzini e alle ragazzine di sedersi sul bordo delle mura laterali da dove, sfruttando l’agilità di corpi non ancora definiti, hanno sempre avuto il privilegio di godersi l’uscita del santo. Ragioni di sicurezza, si sussurra sotto il fresco colonnato corinzio. Qualche faccia è preoccupata. Si dice che quest’anno solo venti portatori, con un passi o un distintivo o qualcosa del genere attaccato al

grembiule bianco, saranno autorizzati a ricevere la statua. Si teme che, dopo il divieto di lanciare il pane, un’altra proibizione contribuisca ad anestetizzare la festa, ad incrinare il legame passionale tra il popolo e il suo santo, a trasformare un atto quasi di ribellione contro la gerarchia ecclesiastica (che infatti non ha mai partecipato alla processione) nella consegna ordinata da parte dell’autorità sacerdotale (storicamente, in uno dei momenti più toccanti, il santo viene sequestrato con un atto di forza da parte di una folla urlante che occupa la chiesa, assicura la statua alla vara e, al grido di «ebbiva san Calò», guadagna l’uscita per offrirla ai baci convulsi dei fedeli). Ma non si riesce a capire quanto ci sia di vero in questi sussurri. Del resto, si sa, non è mai facile controllare la passione popolare. Né, quando finalmente avviene l’irruzione, ci si può mettere a contare quanti siano a trasportare la vara fino al centro della navata, a sbatterla sul pavimento e a saltarci sopra mentre risuona l’eco del tradizionale applauso. Ciò che è certo è che, per il secondo anno consecutivo, quando san Calò è ormai fuori e viene messo giù per i primi baci, dopo un po’, è il prete a salirci sopra. I portatori lo sanno e fanno in modo che la vara sia sgomberata dai fedeli, che da angusta struttura sulla quale accalcarsi per conquistare un pezzo di viso da baciare sia trasformata in palcoscenico, nell’improvvisato proscenio di un inedito monologo. Cinque minuti, del resto. Cosa saranno rispetto alla lunga giornata durante la quale, nel vuoto assoluto di ogni autorità civile e religiosa, la statua sarà riconsegnata alla città e ai suoi abitanti? Il popolo forse non capisce ma tollera composto. Ha magari la percezione di qualcosa di strano, di mai visto, di un’intaccatura alla tradizione di una festa comunitaria dove ogni gerarchia è messa al bando. Ma deve pensare che, dopo tutto, anche San Calò è un uomo di Chiesa. Il prete occupa la vara. E’ solo. Davanti alla folla che assiste in trepidante attesa. Sotto il sole cocente, impaludato di cotta e mozzetta color porpora, il prete si toglie una specie di coppola bianca e chiede silenzio. Un microfono in mano. Forse per accendere un po’ di entusiasmo, grida in un italiano irreale: «viva san Calò». Poi recita il Padre nostro e la folla lo segue. Disciplinata e apparentemente assorta. Subito dopo, qualche veloce domanda tratta dal rito della confermazione e, ogni volta, il popolo torna a ripetere ossequioso: «credo». Fino alla benedizione quando qualcuno porge al prete il secchiello e il prete prende l’aspersorio, lo intinge nell’acqua benedetta e la distribuisce verso l’assemblea. L’atto inconsueto è, dunque, compiuto. Anche la tradizione può cambiare, deviare (fatta la benedizione, urlando «e chiamamu a cu n’aiuta» -parole tradizionalmente affidate alla voce baritonale di uno degli storici portatori-, anche il prete è in grado di suscitare l’entusiasmo più convinto della folla). Tra poco il campanellaro darà il segnale che la processione può ripartire, che i portatori ancora pieni d’energia potranno scalare la piccola montagna di gradini e il santo potrà tornare ad essere
l’oggetto esclusivo dell’affetto dei fedeli. Sulla vara il prete esita ancora, si guarda intorno, fa ampi gesti, non sa esattamente da dove scendere. Mentre una voce, che suona a metà strada tra il misterioso ossequio di chi si affida ad un’autorità che ammette ma che non comprende e la sottile ironia di chi sa di essere estraneo alla gerarchia, al potere di cui può solo limitarsi ad esorcizzarne la forza con una semplice battuta, dice con un sibilo a mezz’aria: «faciti scinniri u parrinu, faciti scinniri».

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