PERCHE' MI DICI POETA? GIA', PERCHE'? di Pepi Burgio

Una passeggiata lunga più di seicento pagine, un atto d’amore per un geniale poeta romantico, e insieme la coscienza di un debito grande nei confronti di chi ha annunciato quel “sentimento simbolico della realtà” che ha segnato in maniera indelebile la propria attività di scrittore.

            In A passeggio con John Keats, Julio Cortazar ha affastellato, caoticamente a prima vista, una teoria smisurata di spunti, suggestioni, saggi letterari di grande profondità e finezza, concepiti nei primi anni cinquanta e adesso pubblicati da Fazi a trentasette anni dalla sua scomparsa. La struttura formale, dicevo, è solo in apparenza disorganica, poiché l’approvazione entusiasta delle poesie di Keats è costantemente rivolta alla individuazione dei segni caratteristici di una teoria della poesia con la quale Cortazar sembra identificarsi compiutamente.

            Per iniziare, lo scrittore argentino mette in risalto l’impronta lirica e non elegiaca della poesia di Keats all’interno della sensibilità romantica, nei cui confronti il poeta inglese rivendica la “libertà dell’atto poetico”, non soltanto quella espressiva; in un breve saggio del libro, intitolato Alienazione e permanenza, Cortazar a tal proposito pone in esergo un significativo brano di Eliot: “La poesia non è lasciar andare a briglia sciolta l’emozione, non è fuga dall’emozione; non  è l’espressione della personalità. Ma naturalmente solo quelli che hanno personalità ed emozioni sanno quel che vuol dire liberarsi da queste cose”. In questo senso, Keats, sembra approdare ad una sostanziale indifferenza nei confronti dei “temi” poetici che attesta la necessità di un “lirismo puro”, in anticipo di alcuni decenni sulla poetica simbolista.

            Dice Cortazar: “ogni compromesso eccentrico, ogni situazione del poeta a margine del  fatto lirico fa insorgere Keats”. Il poeta è il cantore delle essenze, colui che compone un’ode a un usignolo solo se prima si è fatto usignolo, che muore alla vita, direbbe Blanchot, per continuare a cantarla; il poeta, per Keats come per Cortazar, avverte che “solo attraverso il canto si va verso l’essere che viene cantato”.

            Il poeta, è vero, deve condursi con senno, poiché ha anche una responsabilità civile, ma essa consiste essenzialmente, dice Bradley, nel “rifiuto di discostarsi dalla sua maniera poetica di fare del bene” […]. Il poeta “deve essere altruista, senza dubbio, ma forse lo ottiene essendo egoista”.

            In John Keats si ritrovano, come si è detto, ben prima di Baudelaire, l’aspirazione ad una poesia pura ed il coraggio di affermarlo nel 1820, quando già essa era inibita dalla crescente domanda di “senso sociale”. Per Cortazar, Keats deve avere svolto una simile considerazione: “il mio compito è la poesia, lasciami in pace col resto fintanto che io non mi ci diriga come sostanza poetica”.

            Si trova infine, in particolare in un saggio, Trionfo, una limpida esposizione del significato più autentico, e fra i più interessanti, che Keats attribuisce alla parola poetica, luogo abitato da una libertà assoluta: “dal credo, dal partito, dal domicilio, dal denaro”. Keats, secondo Cortazar, “elabora e difende la sua indipendenza personale”, rifiutando di fissarsi in una forma che lo connoti, lo delinei, lo imprigioni. La sua “mancanza di carattere”, non va certo intesa come debolezza morale o fragilità psicologica; come rigetto, piuttosto, di ogni categoria che lo trattenga in una qualche consistenza. Fanny Brawne, la donna a cui Keats dedica alcune poesie, è dal poeta amata, ma, dice Cortazar, questi “odia l’amare Fanny”: “[…] sprofondato / nell’inutile pena scorderei / ogni scopo di vivere, - perduto - dal mio palato della mente, il gusto, / e l’ambizione di pur fare, ceca […]”.

 

 

            Nell’autunno del 1820 John Keats raggiunge Roma dopo un viaggio estenuante in compagnia di un suo amico, il pittore Joseph Severn. Assieme alloggiano a Piazza di Spagna, al civico 26. Le sue condizioni di salute peggiorano rapidamente, Keats ha solo venticinque anni, ma già da tempo conosce assai bene, lo dice chiaramente in Sonno e Poesia, la potenza del canto: “Un scroscio inesausto di luce è la poesia”. Ma sa altrettanto bene che “[…] anche se nata / Dalle Muse, è come un angelo caduto, / Una Magìa che si nutre delle pietre e delle spine della vita, / D’alberi sradicati, di tenebra e vermi, sepolcri e sudari, / Dimentica dei fini grandi e rari della poesia: / Essere un’amica che la pena placa / E i pensieri eleva dell’uomo […]”.

Nella lettera, probabilmente l’ultima, che scrive a fine novembre a Charles Brown, suo fraterno amico, scrive: “Ho la sensazione continua che la mia vita reale sia già passata, e di star conducendo quindi un’esistenza postuma”. Nel febbraio del 1821 le sue condizioni appaiono disperate, muore infatti il 23 nell’abitazione di Piazza di Spagna. Dopo tre giorni viene sepolto a Roma nel Cimitero degli Inglesi. A Joseph Severn, che lo ha amorevolmente assistito, raccomanda negli ultimi giorni di porre sulla tomba delle margherite e di iscrivere questa epigrafe: “Here lies one whose name was writ in water”, qui giace uno il cui nome fu scritto sull’acqua.

            Tre anni prima, in una lettera a Richard Woodhouse, aveva scritto: “Il poeta è la più impoetica delle cose che esistono; perché non ha Identità”.

            Il suo nome è, appunto, come scritto sull’acqua.

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