BOGDANOVICH, THE END di Pepi Burgio

E ora che anche lui se ne è andato forse è il momento per ricordare che L’ultimo spettacolo - The last Picture show è in assoluto uno dei film più belli e memorabili che ci è capitato di vedere. E di rivedere. E non solo per l’inevitabile raffronto con l’omonimo romanzo di Larry Mc Murtry da cui il film è tratto; romanzo intenso, commovente, ma la trascrizione cinematografica, valorizzata nella sceneggiatura dal contributo di Mc Murtry, è altra cosa. Peter Bogdanovich che da poco ci ha lasciato, nel 1971, anno in cui il film è apparso nelle sale, aveva già al suo attivo un film, Target, ed un saggio del 1967, Il cinema secondo John Ford, considerato un testo fondamentale della storia del cinema.

         Noi ricordiamo Bogdanovich per la sua esemplare poetica, non per una ricognizione biografica, ma tuttavia va richiamata alla memoria la sua tesi di laurea su un film, Furore - The grapes of wrath, “poema di solenne pietà” di John Ford, straordinaria opera cinematografica tratta dal romanzo capolavoro di Steinbeck. Tale opzione originaria crediamo anticipi una particolare inclinazione del futuro regista, che evolverà tra l’altro, e L’ultimo spettacolo ne è vistoso attestato, in un occhio attento alle intermittenze dell’anima dei giovani: ora scontenti e inquieti, ora vivaci e scapestrati. Filtrate queste da una spessa patina malinconica che fa del film, assieme a I 400 colpi di Truffaut, l’opera più poetica ed intelligente che abbia accostato le care ingenuità selvatiche precedenti l’età adulta.

         Pedro Armocida, in occasione della scomparsa di Bogdanovich ha scritto che “il capolavoro per un artista è quando la nostalgia del passato gli consente di realizzare un capolavoro originale profondamente ispirato da quella malinconia”. Ogni film, necessariamente, è un’opera originale, perfino quando aderisce mimeticamente a ciò che si propone di rappresentare; tanto più quando in esso si compie il prodigio di ordire in un’opera di poesia per immagini, il racconto esistenziale con l’incombente crudeltà della guerra di Corea, nello sfondo simbolico della chiusura dell’unica sala cinematografica di un’anonima, annoiata cittadina texana. Ne L’ultimo spettacolo, secondo Pedro Armocida “omaggio in bianco e nero tra i più sentiti, malinconici e disperati sulla provincia americana degli anni ’50”, il turbinio di un “vento stupido” sembra predire un tempo altro, gonfio di slanci e di speranze, d’inganni e delusioni.

         Qualcuno poi avrebbe scoperto nella propria formazione una singolare affinità elettiva tra Steinbeck, Ford, un giovane cantante di Duluth e le toccanti sequenze di  The last picture show.

         In queste ore c’è chi pensa con rimpianto al regista scomparso, e intanto a mezza bocca accenna il motivo  di un brano country di Hank Williams, Cold, cold heart che tanto somiglia ad una nenia, nella colonna sonora del film cantato da Tony Bennett:

Why can't I free your doubtful mind
and melt your cold, cold heart?

 

Perché non riesco a liberare la tua mente dubbiosa

e sciogliere il tuo freddo, freddo cuore?

 

Già, perché?