I CIAULA CHE SIAMO STATI di Pepi Burgio

Dirò più avanti cosa mi ha indotto a rileggere la ristampa anastatica, molto ben curata nel 1993 dalla Provincia Regionale di Agrigento, di una indagine commissionata a Vittorio Savorini nel 1880 dall’allora Prefetto di Girgenti senatore Giorgio Tamajo, sulle “Condizioni economiche e morali dei lavoratori nelle miniere di zolfo e degli agricoltori della provincia di Girgenti”. Savorini era un autorevole intellettuale, abruzzese d’adozione e romagnolo di nascita, di formazione laica e positivista, preside dell’Istituto Tecnico di Teramo e fondatore della “Rivista abruzzese di scienze, lettere ed arti”. Nella seconda metà degli anni settanta del diciannovesimo secolo era stato insegnante di Storia e Geografia all’Istituto Tecnico di Girgenti provenendo dalla Scuola Normale di Bologna.

Va inoltre ricordato che nel 1875 si era laureato a Bologna in Giurisprudenza e Belle lettere dove insegnava Giosuè Carducci di cui era stato allievo, e che per un certo periodo aveva fatto parte della segreteria particolare di Marco Minghetti.

La relazione che Savorini aveva presentato potrebbe essere comparata, se non fosse per il ben più ridotto spettro d’indagine, a quelle che nello stesso periodo vennero elaborate da Stefano Jacini sulle condizioni dell’agricoltura nel Regno d’Italia, e da Sydney Sonnino e Leopoldo Franchetti su “La Sicilia nel 1876”.

Il Prefetto Tamajo era riuscito a raccogliere importanti informazioni sulla condizioni dei lavoratori nelle miniere della provincia, senza che la raccolta di queste rivestisse il carattere formale dell’inchiesta: essa, dice Savorini, “spaventa sempre i capi delle industrie e gli operai stessi, li mette in guardia e, molto più spesso che uno possa immaginarsi, li induce a nascondere il vero stato delle cose”. Provo quindi ad offrire una sintesi della relazione Savorini, il quale esordisce ammettendo una particolare difficoltà nell’indagine, e trattando l’intera materia con una grazia empatica che talvolta trascende l’analisi sociologica per lambire, in qualche caso, le narrazioni che da Verga a Sciascia, passando per Pirandello e per la generosa letteratura domestica, sull’argomento sono state realizzate. E’ arduo, afferma Savorini, descrivere una realtà sociale come quella delle miniere siciliane, avvolte come sono in un atavico mistero: “Come si chiamano quegli operai che vivono nelle viscere della terra per tanta parte della loro vita? Di chi sono quei fanciulli che trasportano lo zolfo a forza di spalla, rantolosi, macilenti, malnutriti, maltrattati? Come è il loro lavoro? come sono pagati? che cosa vogliono? di che hanno bisogno?”. Comincia qui la descrizione di una realtà infernale sottratta al mutare del tempo e che a stento si crede possa essere esistita. Lo strazio del lavoro nelle tane sotterranee che privano del “beneficio della luce del sole”, è soltanto una  delle figurazioni dell’orrore che Savorini tratteggia. I gravi danni arrecati alla costituzione fisica dei carusi piegati dal peso dello zolfo, vengono rilevati dai medici dei “Consigli sanitari delle province minerarie” accanto alle ferite, ai lividi, alle contusioni procurate loro “dai picconieri per indurli a caricarsi sulle spalle pesi sproporzionati alle loro forze”. Sonnino e Franchetti, a proposito del lavoro dei carusi nelle miniere siciliane, così scrivevano nel 1876: “Il carico varia a seconda dell’età e la forza del ragazzo, ma è sempre superiore a quanto possa portare una creatura di tenera età. I più piccoli trasportano un peso dai 25 ai 30 kg, e quelli di 16 in poi dai 70 agli 80 kg. In media ogni carusu compie 29 viaggi di andata e 29 di ritorno”.

Nelle miniere di Favara, di Licata e di Palma Montechiaro, secondo Savorini molti carusi non ancora ventenni “hanno già come vecchi incurvata la spina dorsale”; in quelle di Aragona e Comitini è possibile apprezzare “la prevalenza della bassa statura e le membra spesso rattrappite dei minatori”. Quindi Savorini si sofferma sugli effetti nocivi dei gas che spesso si sprigionano, inalati per tutto il giorno quando i minatori pernottano all’interno delle zolfare. Di spettrale desolazione sono i luoghi in cui insistono le miniere: “forse a cagione dei vapori solforosi o della costituzione geologica dei terreni, e per l’una e l’altra causa insieme, sono squallidi, deserti, senza un filo d’erba, senza vita animale e spessissimo lontani dall’abitato”.

In un siffatto contesto di abbrutimento subumano, non può che radicarsi quella “viziata atmosfera morale che si respira in quegli antri”. Le miserabili condizioni sociali in cui vivono e “le orribili fatiche a cui sono sottoposti”, fanno dei minatori soggetti violenti e collerici, attaccabrighe e rissosi. Essi, dice ancora Savorini, “sono ovunque tenuti in conto di gente proclive al delitto”.

Infine, quasi a marcare il tormento delle successive stazioni di una immaginaria via crucis, il lavoro delle donne nelle miniere. Per Savorini anch’esse, benché esigue nel numero e non impegnate nel lavoro estrattivo, durante l’estate “sono impiegate al trasporto degli zolfi dalla bocca della zolfara alla catasta del minerale”. E tuttavia, anche se la loro occupazione non si svolge nei sotterranei, lo stesso entrano in contatto con “uomini nudi o semi-nudi, dormono nelle miniere, e perdono così fin l’ultima ombra del pudore. E questo male poi è tanto maggiore quando si consideri che tali donne sono generalmente giovanette dai 9 ai 16 anni come nelle miniere di Cianciana”. Non occorre una grande fantasia per intuire gli esiti di questa turpe promiscuità: nonostante attorno ai 17 anni, secondo le consuetudini, le ragazze vengono ritirate nelle famiglie, aggiunge sconfortato Savorini, “il maggior danno è già loro venuto e sono già corrotte a segno che la maggior parte di esse, anche per la disistima in cui sono poi tenute, si danno al meretricio”.

 

Non avrei probabilmente riletto l’inchiesta di Vittorio Savorini se in questi giorni non avessi incrociato un bel racconto lungo, “I sepolti vivi” di Giacomo La Russa, in cui si narra di un’occupazione durata sei mesi, nel 1953, della miniera Ciavolotta da parte di pochi coraggiosi minatori che un tempo avremmo definito un’avanguardia. Nel ’53 erano già trascorsi settant’anni dall’inchiesta sulla realtà mineraria della provincia, e qualcosa, non molto, era cambiato; si era piuttosto insinuato, nella coscienza di qualche singolo, un barlume di speranza sulla possibilità che un’azione collettiva promuovesse una parziale attenuazione di quelle condizioni di vita e di lavoro che al Savorini erano apparse brutali. Giacomo La Russa ci informa di questa occupazione e delle conseguenze giudiziarie che ne erano conseguite, ricorrendo ad un linguaggio fluido, essenziale, privo di quelle aggettivazioni ridondanti che talvolta tradiscono un autocompiacimento, una sorta di ipertrofia dell’io, a malapena occultata dal divenire del flusso narrativo. La particolare sensibilità dell’autore emerge primariamente con l’assunzione del tema dell’opera; che è inattuale e, non foss’altro per questo, interessante, estraneo com’è ad ogni scampolo ideologico nonché puntuale nella delineazione della cornice storica degli avvenimenti. Sobrio nel ricorso alle espressioni dialettali, in un tempo in cui furoreggia il ricorso al folklore e alla macchietta, “I sepolti vivi” è un racconto moderno, costruito rigorosamente con un’asciuttezza che proviene da talento ed educazione letteraria. “I sepolti vivi”, dice Giacomo La Russa nella nota introduttiva,  “vogliono essere e rimanere un’opera puramente letteraria”; sapendo bene però che la letteratura non è una forma di riduzione della realtà. La letteratura, ci ricorda Todorov, “partecipa al processo di chiarificazione del mondo ma vi aggiunge bellezza e, attraverso questa, lo rende migliore”. Speriamo.

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