CENTO ANNI FA NASCEVA MIO PADRE, 'PAPA NERO' MANCATO di Giandomenico Vivacqua

Cento anni fa nasceva a Ravanusa Giovanni Vivacqua. Il preside Vivacqua, il nostro indimenticato  e indimenticabile preside.  Ha guidato il liceo classico ‘Empedocle’ per 27 anni, ha lasciato impronte riconoscibili e incancellabili  nei profili umani e culturali di molte generazioni di liceali che ne coltivano il ricordo soprattutto quando una particolare complessità ingarbuglia i concetti richiamando un di più di capacità analitiche o quando presunzioni di apodittiche verità ingigantiscono approdi conoscitivi da ridimensionare con ironia sottile. Sono uno dei privilegiati ad averlo avuto preside sia come studente sia, qualche anno dopo, come insegnante alle primissime prove professionali. Il mio debito nei suoi confronti è incalcolabile. Ha avuto fiducia nei giovani e nella ragione, nell’autogoverno delle coscienze e nel dialogo. Suo figlio Giandomenico ci aiuta a ricordare il padre con questo racconto che ripubblichiamo in cui si tratteggia l’atmosfera di Casa Professa e i caratteri di alcuni dei suoi padri gesuiti. Gesuiti che per un marginale e trascurabile e tuttavia miracoloso motivo furono risparmiati al piccolo Giovanni che invece a loro era destinato. Un papa nero mancato, un preside luminoso a noi donato. (Giovanni Taglialavoro)

Mio padre bambino, portato agli studi, compreso e mistico, secondo l’autorevole opinione del reverendissimo padre Di Rosa era naturalmente destinato alla Compagnia di Gesù. Terminata nel ‘32 la scuola elementare a Ravanusa, lo attendeva il collegio di Bagheria, ma mio nonno, faccia totemica ma cuore tenero, giudicando eccessivamente severa la regola che imponeva la sveglia alle cinque, inadatta per quel figliolo - tanto bravo, ma delicato - scrisse al padre rettore, impetrando una deroga: che lo togliessero al sonno almeno alle sei, l’innocente. Dura lex, sed lex, se ne ebbe risposta.

Ai gesuiti, che negavano a mio padre quel modesto privilegio, mio nonno, uomo di principio non meno degli ignaziani, negò il fanciullo.

O contrappasso o ironia del destino, aurorale e domestico, il passo di mio padre, intento all’affettuoso governo dei nostri riluttanti risvegli, sempre risuonava per la casa già alle cinque del mattino.

La storia della vocazione paterna, revocata dal pietoso puntiglio di mio nonno, sobillava la mia fantasia di ragazzo col gioco assurdo dei se. Se mio padre avesse preso i voti non si sarebbe sposato, di conseguenza non sarei nato io, né, leggermente più tollerabile omissione, i miei fratelli. Gesuita, mio padre sarebbe divenuto un missionario, un esegeta biblico, un traduttore di rotoli aramaici, chissà, il Papa Nero.

Appartiene forse al paradigma degli appuntamenti differiti, il fatto che cinquant’anni più tardi io abbia frequentato il convitto universitario di Casa Professa, storica residenza palermitana della Societas Jesus, e che vi sia ritornato, più adulto, per trascorrervi un ulteriore periodo di studio in coincidenza col dottorato.

Fatalmente, nei religiosi di Casa Professa ho riconosciuto mio padre, se mio padre non fosse stato.

Quei gesuiti silenziosi, che la disciplina dell’ordine forgia affinché sappiano bastare a se stessi nei lunghi anni di spaesamento missionario; quegli uomini capaci di non smarrirsi nelle vertigini della conoscenza come di fronte alla esotica alterità delle più remote evangelizzazioni; quei padri sobri, che avendo obbedito, perinde ac cadaver, all’ordine di rimpatrio adesso lottano in silenzio nelle celle dell’antico palazzo contro il lancinante mal d’Africa; quei compagni di Cristo, che il sogno mistico del convalescente Ignazio ha votato alla più grandiosa e controversa opera della Chiesa di Roma; quei sacerdoti – quanto diversi dai preti dell’oratorio, il cui mondo finiva con la falda lisa della tonaca – sono la risposta vivente alla mia assurda domanda: chi sarebbe stato mio padre, se da bambino avesse dormito un’ora di meno?

Dalla terrazza di Casa professa, Palermo trascende la sua contingenza topografica, offrendo lo spettacolo diacronico della fatica dei secoli, della passione degli uomini, del genio e della follia. La città si squaderna dalle montagne intorno verso il mare, magnifica e lebbrosa, mentre lo scirocco assedia con eguale devozione le piaghe e le gemme col suo alito d’amante disperato.

Quassù, il latrato rabbioso del motore a scoppio non arriva più forte dell’atroce bestemmia di fra’ Diego La Matina, che dal pianoro in faccia alla cattedrale normanna s’avvia al rogo, a maggior gloria di Dio, mentre le litanie dei confortatori e il festoso tumulto della folla sadica si confondono col vociare insulso dell’epoca nuova. Da quassù, tra quella gente che a Porta San Lorenzo mareggia e s’aggruma attorno al boia, che con polita maestria d’un colpo schianta la testa dell’avvocato Francesco Paolo Di Blasi – perduto dai callidi baroni, ai quali, con le sue Prammatiche, s’applicava a rimuovere i privilegi indebiti – se sforzi lo sguardo puoi distinguere Falcone bambino, l’ombra di un presagio inquieto attraversargli la fronte.

Gli studenti del convitto, nei loro alloggi, paventano gli esami e i loro prostatici maestri, artefici di incubi lunghi migliaia di pagine, custodi di un sapere arcaico che si ostinano a tramandare con le imprecise allusioni dei segni alfabetici. Al crepuscolo, si liberano della tensione accumulata durante le ore trascorse in territorio nemico, urlandosi volgarità da una finestra all’altra, o solo emettendo suoni gutturali, osceni bramiti che i Padri fingono di non udire: è un rito ancestrale, la ribellione dell’uomo nudo, strappato alla sua innocenza, alla conoscenza istintiva di sé, che si rifiuta alle molteplici verità della parola scritta.

Sono ragazzi docili, non pensano affatto di cambiare il mondo; affidano pensierini edificanti alla grande bacheca all’ingresso del convitto; credono di essere cattolici, ma agli esercizi spirituali si danno di gomito. Penso che del falegname di Nazareth sappiano qualcosa; di sicuro – c’ero anch’io – hanno visto il film in televisione. 

Padre Gaspare Impastato è appena tornato dal Madagascar, dove da cinquant’anni è in missione. E’ malato, il cuore e le gambe, ha 75 anni, ma pensa già di ripartire, dopo i controlli e un piccolo intervento. Il suo italiano infrancesato è piacevole da ascoltare. Mi racconta di quando partì la prima volta, che non era ancora sacerdote, ma già bruciava di febbre missionaria. 

La cosa nacque così. Ragazzino, frequentavo il collegio di Noto, una sorta di seminario per i Gesuiti. Erano gli anni prima della guerra. Lì conobbi due Padri che partivano per l’Africa. M’impressionarono moltissimo e cominciai a leggere le vite dei grandi missionari: ne fui sconvolto. Dovevo partire anch’io, a qualunque costo: Dio me lo chiedeva. Si può dire di no a Dio? Continuai a studiare, ma non pensavo ad altro, così, proprio nel ‘50, l’Anno Santo, che ancora non avevo finito gli studi filosofici necessari all’ordinazione, partii, insieme ad altri due religiosi. Bisognava andare laggiù per dare una mano ai gesuiti francesi, la cui opera era fortemente contrastata dai protestanti, politicamente legati all’Inghilterra, che non rinunciava ad esercitare una certa influenza sull’isola. Partimmo il primo dicembre, da Palermo, in nave verso Napoli, poi in treno verso Marsiglia e da lì di nuovo in nave verso la nostra destinazione. Il viaggio fu avventuroso: non avevamo né cabine né sdraio. La nave era piena di militari francesi. Padre Pecoraino e padre Profita dicevano messa a bordo sopra un altare improvvisato, una semplice tavola poggiata su due sedie, che col mare mosso ribaltava e bisognava tenerla ferma. Attraversammo lo stretto di Messina e le finestre della nostra residenza di lì si illuminarono per noi. A Suez dalla nave vedevamo i cammelli, le palme: fu un’emozione grandissima per me, piccolo missionario siciliano che avevo viaggiato solo sui libri. Arrivammo in Madagascar il giorno di capodanno. A Mahajanga tutte le sirene delle navi suonavano a festa ed il mio cuore era pieno di meraviglia. Trascorsero molti giorni, prima che riuscissimo a raggiungere la nostra destinazione. Trovavo un paese povero, distanze enormi, la nostra religione che si fondeva con le loro antiche credenze, col culto degli antenati. Il nostro errore era credere di portare in quei luoghi, con la parola di Dio, la civiltà. Ci sbagliavamo, naturalmente. Io ho solo appreso dai malgasci, un popolo tradito dall’occidente, come tutte le ex colonie. Il mio posto è là, Dio mi ha cucito addosso un vestito che non ho mai dismesso: tante volte, di fronte alle difficoltà più disarmanti, l’ho invocato, dicendogli che Lui mi ci aveva chiamato a quella missione, e che allora ci pensasse Lui a rimettere le cose a posto. Vuole sapere se funzionava? Ma la risposta è nella mia fede, cosa può significare per lei? 

Sulla terrazza di Casa Professa, i Padri sussurrano che Francesco Saverio partirà presto per il Giappone, dicono che sia un santo. L’ho incontrato una sera, mentre rincasava, e nella penombra delle grandi scale mi ha colpito la foggia del suo abito, come non se ne vedono più.

*Alcuni mesi dopo che avevo dato questa discutibile forma alle suggestioni del mio periodo gesuitico ho appreso che la residenza universitaria di Casa Professa ha chiuso, ufficialmente perché il comune di Palermo ha rivendicato lo storico immobile che la ospitava. Al piano di sotto sono rimasti, almeno per ora, i Padri: sempre di meno, sempre più annosi. Io ricordo ancora Padre Ajello, il vulcanico rettore della leva precedente alla mia, già infermo, accudito silenziosamente dai confratelli, fino alla fine. Ricordo padre Taormina, il mio rettore, che con delicato gesto eucaristico versava il vino nel bicchiere dei suoi commensali. Ricordo Padre Neri, dottissimo e carismatico, che teneva conferenze vertiginose ai convittori consunti dall'onanismo militante. Ricordo padre Lo Conte, uno psicologo clinico che aveva imparato l'inglese alla perfezione ascoltando la BBC e disbrigava, senza complessi, incarichi di basso governo. Ricordo un padre di cui non ricordo il nome, missionario di lungo corso, che sulla porta della sua cella aveva scritto: "Giungla africana". Ricordo che i miei gesuiti non negavano il diritto al confronto, mai a nessuno: agli eterodossi, ai marxisti, ai disillusi, agli agnostici, agli antagonisti di qualsiasi estrazione. Offrivano occasioni di dialogo, stimolanti, e mai una volta che li abbia visti scadere nel proselitismo. Sorprendeva la radicalità del loro umanesimo, l'universalità del loro sguardo. Non ho mai conosciuto critici più severi ed attrezzati dell'etnocentrismo culturale e del liberismo economico. In molte occasioni, superavano a sinistra i più sinistri, e con migliori argomenti. Non erano tutti uguali, certo, ma in ciascuno c'era, più o meno evidente, il riflesso del sogno di febbre del soldato convalescente che li fondò. Erano, fino all'ultimo respiro, compagni di battaglia di Cristo.

Parlo al passato, perché parlo dei miei ricordi. Non so, non ho indagato in che rapporto stiano questi ricordi con la realtà, e non voglio farlo. Io e i miei gesuiti insieme stiamo e insieme cadremo, con le nostre illusioni.

Un po' dappertutto nei tribunali, negli ospedali, nelle amministrazioni pubbliche della Sicilia occidentale si trovano gli ex allievi del convitto. La polvere dei secoli li sbianca, più presto che non fosse prevedibile. Alcuni hanno fatto luminose carriere: da primario, da ingegnere capo, da principe del foro di provincia. Altri coltivano segrete malinconie, senza costrutto.

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