REALTA' E RAPPRESENTAZIONE LEGGENDO 'SEPOLTI VIVI'. INTERVENTI di Giacomo La Russa e Fausto D'Alessandro

Lo scorso 29 giugno il Consiglio dell’Ordine degli Avocati di Agrigento ha presentato nell’aula intitolata a Rosario Livatino, a Palazzo di Giustizia, I sepolti vivi, un racconto di Giacomo La Russa. Rievocando, con intelligenza e stile, una pagina della complessa e tormentosa storia mineraria del nostro territorio, Giacomo mostra quanto insufficiente possa essere il paradigma giudiziario per la piena comprensione dei fatti umani e sociali e quanto sia necessario, di conseguenza, che la scienza giuridica e la tecnica processuale si lascino attraversare dalla sensibilità letteraria, che rimane il più potente scandaglio del mistero umano. Pubblichiamo qui l’intervento dell’autore e quello di Fausto D’Alessandro.

 

 

Mi sia, anzitutto, consentito di ringraziare il presidente del consiglio dell’ordine degli avvocati ed ogni suo singolo componente per essersi fatti carico di questa scommessa, ritenendo che I sepolti vivi potessero essere meritevoli di un approfondimento, che i suoi aspetti, sia esistenziali che giuridici, potessero costituire la piattaforma per il presente incontro.

Vorrei poi ringraziare gli stessi relatori le cui articolate riflessioni hanno ancora una volta dimostrato a quale varietà di temi e molteplicità di spunti possa dare luogo un racconto tratto da un episodio della nostra vita civile.    

E, infine, vorrei ringraziare tutti voi per l’attenzione e la sensibilità riguardo a questioni che, io credo, continuano a riguardarci ancora profondamente.  

Come l’avvocato anziano, io non dirò molto. Quanto doveva essere detto è già stato detto in maniera certo assai più autorevole di quanto non avrei potuto fare io.

In realtà, tra le poche cose che mi sono attribuito, vorrei, anzitutto, dare conto di quella che è per me l’essenza, la ragione culturale e spirituale alla base di questo mio sforzo narrativo.    

Qualche settimana fa sono andato a trovare le figlie di Giovanni Manganella, uno dei ventisette sepolti vivi, dalla cui voce, qualche anno prima, avevo appreso l’episodio che aveva fatto scattare in me il desiderio e, direi, il bisogno di raccontare.

Il padre, classe 1922, era ormai deceduto e le tre figlie mi aspettavano all’interno della stessa stanza in cui era avvenuto il precedente incontro.

Erano sedute attorno ad un tavolo, serie, composte. Sapevano la ragione della mia visita, erano state informate che qualcuno aveva cercato di fare dell’esperienza del padre il centro di un racconto.

Per la verità, anche quell’incontro si trasformava presto in una valanga di rievocazioni, una folla di personaggi e di aneddoti risorgeva, per incanto, dalla coltre della memoria.

Ve ne riporterò brevemente due.

Il primo. Siamo a Palma Oliva che, per chi conosce un po’ Favara, sa essere stato uno dei quartieri popolari adagiati quasi ai piedi del paese, una specie di fascia stretta e lunga, il quartiere rosso della mia infanzia che vive oggi uno stato di abbandono e di tragico degrado. Quando le tre figlie del minatore erano bambine, la nonna teneva una capra all’interno di un piccolo dammùso e, ogni mattina, sbriciolava un po’ di pane dentro un cicàruni, lo dava alle nipoti ed ordinava poi al marito di riempirlo del latte che egli mungeva da quella stessa capra.  

Il secondo è invece legato alla tristezza, al pianto quasi delle vicine quando, nel 1982, la famiglia Manganella decideva di trasferirsi da Palma Oliva alla zona del Macello dove era stata costruita una casa più spaziosa e confortevole (seguendo quella diaspora dai centri storici che ha segnato un po’ il destino non solo di Favara). Duecento metri in linea d’aria ma, in realtà, un altro mondo. Un legame, un vincolo, un frammento di comunità era stato inesorabilmente spezzato.

Ecco, io penso che la letteratura stia esattamente qui. Dove c’è qualcuno che ci racconta di un dolore, di una rottura, di un rito. Dove c’è una voce che ci ricorda un mondo, una civiltà scomparsa o prossima a scomparire. I libri, insomma, non nascono dai libri. Essi nascono dalla vita. Quando manca questo rapporto, quando ci si chiude alla realtà, quando, anche per pigrizia o presunzione, si ritiene che la nostra mente sia autosufficiente, che essa possa contenere il mondo, si scade nell’artifizio, nella retorica, nell’autoreferenzialità, a volte anche nell’esibizionismo.

Fare o tentare di fare letteratura (che è cosa ben diversa dallo scrivere: si può scrivere senza essere scrittori) è un faticoso atto di ricerca, non è mai il frutto dell’ispirazione.

Quand’ero bambino, c’era, al mio paese, dietro la chiesa davanti alla quale si infrangeva il mio giardino, una grande costruzione in muratura. Era il Nucleo dei carabinieri, il reparto speciale istituito per la repressione dei briganti che, ancora dopo la seconda guerra mondiale, rapinavano, sequestravano, estorcevano, uccidevano. Un giorno vidi, per la stradella che costeggiava la chiesa, due carabinieri in divisa su due maestosi cavalli bianchi. E c’era, poco più in là, a vivere nello sgabuzzino attaccato alla chiesa, un personaggio che, vestito di stracci e seguito da una muta di cani, girava per tutto il paese alla ricerca di cibo: Stefano Cuppularu. E, la sera, sentivo, sulla via asfaltata, il padre di Pasquale ritornare dalla campagna a dorso del mulo. Ecco, queste immagini (la capra di Palma Oliva, il pianto delle vicine, i cavalli bianchi dei carabinieri, Stefano Cuppularu, lo zoccolio del mulo del padre di Pasquale) rivelano per me la traccia di un mondo perduto, di una civiltà di cui, ad un certo punto, diventa imprescindibile salvare qualcosa attraverso l’unico strumento di resistenza che ci è, infine, concesso: la lingua che, ricevendo lo spirito del passato, si fa miracolosamente letteratura.

Ecco, che cosa sono o vogliono essere, in definitiva, I sepolti vivi: il tentativo di ridare luce ad un mondo che, altrimenti, smetterebbe di parlarci, di ricordarci chi siamo stati e, dunque, chi siamo e dovremmo essere. Il tentativo, aggiungerei, di scaldare il nostro presente sottraendoci all’aridità di una altrimenti fredda, piatta, vuota modernità.  

In questo senso, tra le cose più belle che io ho recentemente letto ci sono alcune pagine di un volume scritto da un eccellente teologo e storico agrigentino, padre Calogero Fausto Infantino. Sono, in particolare, alcune pagine che rievocano il Ràbato operoso, quello che era un tempo questo quartiere descritto da Pirandello come il braccio su cui Girgenti s’appoggiava: le case piccole, i vaneddi, i cortili, i bambini, le donne sedute a rammendare sull’uscio, le ragazze che ricamavano il corredo, i vecchietti che s’assulicchiavanu, le frotte di animali domestici che razzolavano. E poi i jurnatara che con la zappa e la sacchina in spalla uscivano dal quartiere per recarsi nei campi e i caprai che vi facevano invece ingresso coi loro animali per vendere il latte ai parrucciani e la descrizione dei personaggi e delle attività che costellavano un tempo il Ràbato inferiore e il Ràbato superiore.    

Ora, è possibile che quartieri così pregni di vita e di storia, come, appunto, il Ràbato o Palma Oliva, che un mondo straordinariamente complesso come quello della Ciavòlotta (all’interno del quale per almeno due secoli si sono intrecciate una miriade di vicende umane), è possibile che tutto questo sia sostanzialmente scomparso senza essere mai stato letterariamente raccontato? È possibile cioè che questi mondi non abbiano costituito la materia incandescente per la nascita di una vasta opera letteraria come lo sono stati, per esempio, la Firenze di Pratolini o il Mississippi di Faulkner, Il Cairo di Mahfuz o la stessa Roma borgatara di Pasolini? E che cos’è, in definitiva, un mondo che rimanga senza voce, una comunità che non abbia avuto una narrazione? Quale indicibile sciupio contiene il destino di un angolo di terra che scompaia senza lasciare significative tracce letterarie, che si estingua con scarse testimonianze poetiche?        

Ecco, nel loro piccolo, quale minuscolo frammento, se vogliamo, I Sepolti vivi intendono esprimere questa esigenza, intendono militare, se possibile, per la letteratura di cui parlava il dottore D’Alessandro e di cui, io credo, esiste ancora forte il bisogno: l’affresco umano e sociale, l’attaccamento alla realtà, la necessità di riannodare il filo con questa terra e con questa Sicilia.

Detto questo, tralasciando il tema del rapporto tra diritto e giustizia su cui si è già approfonditamente soffermato il dottore Sestito, l’altra considerazione che vorrei brevemente svolgere attiene al rapporto tra diritto e letteratura. Esiste, anzitutto, tale rapporto? E, se esiste, in che termini esso si pone? Il giurista deve in qualche modo essere anche un letterato? (letterato inteso non certo in quanto critico o come colui che lo fa di professione o che ha letto tanti libri; letterato inteso come colui che li ha penetrati e profondamente amati, come colui che sa o ha imparato come le pagine dei libri non siano artifizio, esibizione, gioco di parole, ma trasudino vita e storie, carne e sangue, gioie e dolori). Insomma, si può davvero perseguire la giustizia, che è essenzialmente ricerca di una verità profonda, sia pure processuale, senza essersi soffermati sulla ribellione di Antigone o sul senso di colpa di Raskolnikov, sulla terribile sorte occorsa a Guglielmo Piazza e Giangiacomo Morra o sul sentimento di estraneità di Meursault? Si può svolgere una professione che costringe ad intersecare, sia pure per un tempo limitato, la propria vita alla condizione altrui se non si sono prima assorbite, come vitale nutrimento, le pagine che raccontano l’angoscia di Joseph K. o quelle che parlano del processo e della condanna di Gesù Cristo?  Sentite cosa diceva un giudice della Corte suprema degli Stati Uniti in una lettera al dodicenne Paul Clausen: «mio caro Paul, nessuno può considerarsi un giurista competente se non è un uomo di cultura. Se fossi in te, dimenticherei qualsiasi preparazione tecnica per quanto concerne il diritto. Il miglior modo per studiare il diritto è quello di giungere a tale studio come una persona già ben istruita …. Per un giurista non è meno importante coltivare le facoltà immaginative leggendo poesia, ammirando grandi quadri, ascoltando grande musica. Rifornisci la tua mente di tante buone letture, amplia e approfondisci i tuoi sentimenti sperimentando il più possibile i magnifici misteri dell’universo, e dimenticati della tua futura carriera».

Nel 1973, sempre negli Stati Uniti, nacque il movimento Diritto e letteratura. Fonte ispiratrice ne fu The legal imagination, l’opera di un certo James Boyd White, secondo il quale lo studio della letteratura è fondamentale per la formazione di un giurista in quanto «gli studi letterari avrebbero qualcosa di particolare da dire sul diritto e sull’interpretazione giudiziale».

Cosa avrebbero da dire? Perché diritto e letteratura non sono affatto, secondo questa prospettiva, mondi separati? Perché non costituiscono neanche mondi che semplicemente si toccano, si sfiorano, confinano? Perché, insomma, diritto e letteratura si compenetrano, si spiegano e si approfondiscono a vicenda?  

Semplicemente perché, io credo, non esiste diritto senza pensiero e non esiste pensiero senza lettura e senza scrittura.

Eccoci, dunque, giunti al nocciolo della questione.

Il diritto è pensiero, è costruzione di una tesi, è ricostruzione di una storia, è il tentativo di rimettere insieme gli elementi di un fatto dando ad essi una veste giuridica. E non solo è tale anche il compito di un’opera letteraria (dare forma ad un mondo disperso, ad una storia perduta come quella, per esempio, dei minatori di cui ci stiamo occupando) ma, soprattutto, entrambe queste ricostruzioni, sia quella giuridica che quella letteraria, passano per lo stesso approccio, per la stessa ricerca, per lo stesso studio. Cambiano soltanto i codici linguistici, tecnico-giuridici, in un caso, tendenzialmente colloquiali, in un altro.

Di più. Io direi che anche il risultato accomuna diritto e letteratura. Tanto l’uno quanto l’altra devono mirare, servendosi di un linguaggio semplice, all’essenza, al cuore. Devono cioè esprimere entrambi il distillato di un caso, di una storia, di un mondo. Sicché, può ben dirsi che anche il diritto non può, in definitiva, che approdare alle due grandi stelle polari del pensiero umano: la semplicità intesa come metodo (ossia, il rifiuto delle ripetizioni, delle ridondanze, dei commenti, dei barocchismi, degli appesantimenti polemici, delle invettive, ecc…) e la profondità, intesa come capacità di riconoscere ogni singolo elemento e di legarlo al contesto, facendolo diventare parte dell’insieme e costruendo in questo modo l’insieme stesso.   

Sicché, da un lato, un giurista, come un letterato, non deve vedersi. Deve scomparire, deve eclissarsi (diceva Giovanni Verga che uno scrittore, appunto, è una sorta di medium, di «mano invisibile», per cui l’opera d’arte deve sembrare «essersi fatta da sé, aver maturato ed esser sorta spontanea, come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore, alcuna macchia del peccato di origine»).          

Dall’altro, deve invece emergere, in tutta la sua forza, in tutta la sua vividezza, nell’opera d’arte come in una sentenza o in una memoria di costituzione, l’oggetto, il contenuto, il fatto.

Ecco, dunque, l’importanza del fatto.

Letteratura e diritto sono, essenzialmente, fatto e, dunque, conoscenza. Letteratura e diritto, anzitutto, descrivono, illustrano, raccontano (il giudizio, anche in una sentenza, è solo l’epilogo, la conclusione; allo stesso modo, la forza di un racconto sta nella sua coralità, nell’insieme di voci e di personaggi che esso si propone di trasporre, non certo nel giudizio o nella visione del suo autore).

E ancora, proprio perché fatto e, dunque, conoscenza, tanto la letteratura quanto il diritto rifiutano ogni pigrizia, ogni indolenza, ogni scorciatoia, pretendono il sacrificio, il lavoro, la costanza, la passione e la ricerca, soprattutto, la ricerca.  

In fondo, qual è la differenza tra il giurista che, nel chiuso della sua stanza, nella sua solitudine, in un continuo confronto con la sua coscienza, legge e rilegge, scrive e corregge in questa faticosa lotta per la verità quantomeno processuale e l’artista che forma, definisce, plasma in quest’altra faticosa lotta per la conquista della bellezza?

Ma verità e bellezza coincidono nel senso che la bellezza è tale soltanto se il suo oggetto è vero o verosimile. Perché proviamo infatti una forma di irresistibile incanto di fronte ad un Velazquez o ad un Manet, ad un Rembrandt o ad un Vermeer? Che cos’è quest’incanto se non la nostra capacità di riconoscere nella Lattaia o in un autoritratto di Rembrandt, ne Las Meninas o nel Balcone di Manet, di riconoscere la realtà che, venendo immortalata, venendo strappata, quasi per miracolo, al fluire disperato delle cose, finisce con l’universalizzarsi e, dunque, con l’eternizzarsi?              

Perché, quando mi capita di trascorrere qualche pomeriggio all’Archivio di Stato o quando compio qualche ricerca sui vecchi polverosi fascicoli giudiziari, provo un’emozione, uno scuotimento al cospetto di quelle pagine ingiallite, lavorate dal tempo, battute a macchina o addirittura manoscritte? Che cos’è quest’emozione, questo scuotimento? Cosa c’è oltre lo scorrere del tempo, di questo gigante che ci accompagna lungo il brevissimo percorso che si chiama esistenza? È la realtà, ecco cos’è, il confronto con essa, la possibilità che una sentenza dell’800 o un fascicolo degli anni ’30 o ’40 ci dà di immergerci in un mondo ormai scomparso, il cui riflesso però è ancora, eternamente, dentro di noi.

                                                                                          Giacomo La Russa

 

 

 

Ringrazio la Presidenza dell’Ordine degli avvocati per l’invito e ciascuno di voi per la presenza che mi onora e mi gratifica.
Siamo qui, in quest’aula dal nome glorioso, a riflettere su un racconto che narra una storia affascinante, singolare e complessa.
Affascinante perché vicenda vera, narrata con abilità artistica.
Singolare perché coniuga mirabilmente la dimensione esistenziale di un piccolo gruppo di minatori con una specifica problematica giuridica e giudiziaria relativa a un diritto, il diritto al lavoro, in questa vicenda, negato e punito.

Complessa perché pone temi che – in astratto e in una dimensione metaletteraria - potrebbero esser compendiati in una serie di rapporti conflittuali, quali quelli tra Lavoro e Diritto, tra la Necessità e la Legge, tra le Minoranze ed il Potere, tra le Minoranze e la Società – tra l’Arbitrio e l’Equità - tra l’Indifferenza e la Solidarietà e tanto altro. 
Per questo nostro incontro l’autore, considerata la duplice natura – esistenziale e civile nel senso lato del termine – del racconto ha ritenuto di declinarne la presentazione in due aree, in due dimensioni di riflessione. 
Una, di natura esistenziale di cui cercherò impropriamente di dar conto io. L’altra, di natura giuridica e civile propriamente e degnamente affidata al dr Fernando Sestito della Corte di Appello di Palermo. 
Che è il libro di Giacomo La Russa? È un racconto di una vicenda politica, civile, umana, esistenziale e giudiziaria, emergente da una antica attività lavorativa nostrana, la miniera di zolfo.

Quello zolfo che ha dato uno stigma di crudeltà al lavoro minorile e che tanta parte ha avuto nella nostra economia passata e nella vita e nel destino di molti agrigentini, tra i quali virtualmente il giovane minatore Michelangelo Fanello e i suoi compagni, protagonisti di una minoritaria occupazione della miniera e del processo che ne seguì. 
La trama e i personaggi e il luogo degli eventi – narrati da Giacomo La Russa – hanno le caratteristiche tipiche del romanzo verista. Lo storico, l’intellettuale, l’umanista che meglio ha definito ed illuminato il concetto di verismo è stato Benedetto Croce e di quella analisi vi riporto brevi riflessioni, sia per farvi cogliere il concetto canonico di verismo, sia per dare conto della cifra
verista della narrazione di Giacomo La Russa.

Dice Croce: L'arte precedente (quella romantica e idealistica) versava più volentieri sugli ideali dell'umanità. L'arte della seconda metà del secolo XIX (quella realistica e veristica) ha guardato più volentieri ai fatti brutali, all'uomo e agli uomini in quanto non raggiungono, e quasi non sospettano, ciò che nell'uomo è d'ideale, in quanto non lo sono davvero, o non son più, uomini. 
L'arte precedente considerava, nella passionalità, ciò che vi è d'intellettuale, di morale, o almeno di squisito e raro: Il verismo invece, considera ciò che vi ha di misero, di egoistico, di comune, di stupidità e di meccanismo.

L'arte precedente considerava più volentieri l'uomo delle classi superiori, o in quelli delle classi inferiori cercava sol- tanto ciò che risponde agli ideali di coltura: il verismo più volentieri si volge alla borghesia affaristica, a quella meschina e magra, agli operai, ai contadini, alle plebi abbrutite, agli irregolari e ai rifiuti della società.

Leggendo I sepolti vivi, si incontra per intero la realtà sociale, civile e psicologica di cui parla Croce: la medesima realtà di miseria, di egoismo, di stupidità, di meccanismo inesorabile (annotate questo termine, perché è l’essenza del processo a Fanello e compagni), la medesima borghesia affaristica e la medesima vita meschina e magra degli operai, dei contadini, dei minatori, degli irregolari, degli umiliati e dei rifiutati.
Formalmente il verismo è la piena aderenza alla realtà oggettiva dell’uomo, senza gli orpelli della elaborazione ideale o antropologica.

L’uomo e la sua esistenza così come sono, ...non come mi aggrada secondo un paradigma estetico o filosofico, ...così come sono prima di ogni invenzione e di ogni manipolazione, così come sono nella loro verità e realtà, nella loro immediatezza.
Il verismo è una modalità letteraria che rappresenta persone e cose che noi conosciamo, che riconosciamo perché facenti parte di una realtà a noi abituale, familiare.

Perché ho fatto questo breve riferimento al modo letterario verista? Soltanto per dirvi che il racconto di Giacomo è di agevole e affascinante lettura, proprio perché vi racconta persone reali, esistenti, conoscibili, vi racconta fatti ed
essenze umane e sociali che conoscete e che riconoscerete.
E le essenze che emergono dal racconto sono molte e tutte riconoscibili per la loro universalità e tutte narrate a mezzo dei personaggi, non attraverso la descrizione della saggistica. 

La vicenda è attraversata da persone che a vario titolo vengono chiamate in causa dall’occupazione della miniera e dal processo giudiziario. Sono tante e tutte evidenti, reali e giungono al lettore come le vede e le sente Michelangelo Fanello, narrante e testimone. Quelle persone portano ciascuna un modo di essere, un punto di vista, una sensibilità, un tipo, una essenza, un valore. 
Vi darò brevissimi esempi, giusto per indicare la dimensione artistica ed esistenziale del racconto. La piccola bimba del giovane minatore Fanello, portatrice delle aspettative di una vita decorosa, emblema di tutta la nascosta povertà e necessità delle classi sociali deboli è colta e percepita a mezzo del suo vestitino della festa, a vistina.

L’animo mite del minatore Fanello viene compreso per un pensiero fugace che lo prende quando - smarrito e incredulo - si accorge che non v’è solidarietà operaia, e si augura che abbiano ragione gli altri, gli altri non lui che sarà vittima della
indifferenza e dell’egoismo comunitario. 

Una di queste persone - emblematiche di un modo di essere - è un politico, un deputato di un partito classista. Egli si muove – come è nel suo ruolo e nel suo credo
ideale – a fianco degli occupanti ma, man mano finisce per assumere la veste ed il ruolo della mediazione. Mediazione non tra la proprietà della miniera e gli operai, ma equilibrismo tra il suo personale status politico e la forza, il potere degli imprenditori dello zolfo che si fa istituzione, che infine decade nell’alibi individuale e comunitario del meno male possibile, che non impedisce tuttavia la espulsione, il processo, la condanna e la fuga emigratoria di quel manipolo di lavoratori che non intendevano fare la rivoluzione ma perseguivano, ambivano al pane quotidiano.

Che è quel politico? È colluso? È debole? È ipocrita, doppio e trasformista?
No, è semplicemente ambivalente, come tanti altri del romanzo. 

Che significa, che intendo per ambivalenza?

L’ambivalenza è un dominus molto presente nelle relazioni interpersonali e sociali, è una abilità psichica, un posizionamento comportamentale di salvaguardia personale
e di equilibrismo tra parti oggettivamente contrapposte; essa è figlia dell’indifferenza e del proprio particolare ed è la sorgente di ogni astensione morale e di ogni diserzione, sempre motivate, sempre giustificate e premiate. 

Altra figura è la proprietaria di un negozio di generi alimentari – la sciancata – che va in aula per testimoniare la probità, la onestà di Michelangelo Fanello, documentate dalla correttezza e scrupolosità di questi nel saldare appena possibile i debiti per l’acquisto di generi alimentari; la sciancata è la testimone della normalità del ribelle e nella sua semplice elementare dimostrazione costituisce la spina dorsale della difesa: La necessità e non l’arroganza ribellista è la causa del comportamento dei minatori. La sciancata è la vox populi della comprensione e della solidarietà verso la sofferenza e le disgrazie del prossimo. 
Altra persona, altro tipo umano è il Procuratore della Repubblica che non inquisisce sulla base del reato ma per il fine pedagogico della condanna esemplare che immunizzi le teste calde dalla tentazione della sovversione. 
Altra figura è il proprietario della miniera Lambertone, la cui ricchezza e potenza trascendono la vicenda, sorvolano il processo, dominano uomini e istituzioni per il solo eterno fatto che la ricchezza e la potenza sono carisma personale e sociale, oggetto indiscusso di ammirazione e di rispetto. 
E tanto altro splendidamente narrato: gli avvocati – l’anziano ed il giovane – abili, generosi, propositivi, ma consapevoli della forza vincente della cultura egemone. Il Presidente della Corte che alterna bonarietà e distanza entrambe di stile padronale. 
E soprattutto il Processo che a me è apparso il coprotagonista del romanzo, impressionante per la sua meccanicità, per i suoi automatismi, per la forza distorcente che ha sui fatti e per la depersonalizzazione che induce nell’imputato, simbolo e testimone. 

Il racconto – nei tempi e nell’azione - si declina in tre aree distinte, segnate dai diversi vissuti emotivi e cognitivi dei minatori, mutanti per il volgere degli eventi e della loro situazione.
La prima coincide con la occupazione della miniera: è il vissuto del coraggio e della consapevolezza del buon diritto, la certezza che le loro ragioni giuste ed ancorate ad un principio di dignità e necessità avrebbero convinto e coinvolto le persone. 

La seconda area occupa il Processo giudiziario: in quel frangente i minatori hanno la percezione del loro isolamento umano e politico e civile e prendono consapevolezza di essere a fronte di una forza, di un interesse, di una visione del mondo prima sconosciute – quella del Potere istituzionale –, sovrastante le loro necessità e ragioni, e svaniscono politicamente e psichicamente nello scoramento, nella perdita
di identità, e infine nel timore... nel timore del carcere, nel timore della disperazione. 

La terza area emotivo affettiva coincide con la condanna e la ratifica della espulsione sociale e della marginalizzazione personale. 
Accade che il gruppo al termine del Processo si sciolga anche umanamente, i legami ed il connettivo che lo univa sono stati vanificati dal disconoscimento sociale e giuridico e ne subentra la chiusura nel proprio destino, nella malasorte, nella solitudine di ciascuno, raccontata dai passi solitari e silenziosi verso una casa povera e rassegnata, ultimo porto prima dell’esilio della emigrazione. 

Mi è venuto di affermare che il Processo è il coprotagonista del romanzo. Chi è il protagonista?

A mio parere è la problematica irrisolta che incombe sul lavoro. L’assenza di una patria giuridica per il Lavoro inteso come Bene primario. Il lavoro negli ultimi cento anni ha avuto immensi accoglimenti legali ed è stato costituzionalizzato: è la sostanza del Primo articolo della Costituzione.

A me pare che tutta la tutela giuridica che avvolge l’attività lavorativa sia rivolta formalmente e sostanzialmente al lavoro come fattore della produzione, come relazione tra produttori, come entità economica, come asset previdenziale. Ma il Lavoro come Bene primario, come Essenza della Persona inscritta nella mente e nella biologia dell’uomo non ha avuto identificazione e quindi accoglimento giuridico. 
Mi domando e vi domando: il lavoro è un bene primario, è un diritto naturale? Fino a che punto è compatibile con la realtà umana e la civiltà giuridica il progressivo oblio dei canoni del Diritto naturale sull’altare del pragmatismo del positivismo
giuridico?

 

                                          Fausto D’Alessandro

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