UN’ANIMA PREGIATA PER RACCONTI SCONFINATI di Pepi Burgio 

A raccontare si corre il rischio di mettere a nudo gli aspetti più celati della personalità e dare sfogo alla pressione dei sentimenti; ma è anche un modo per agghindare la parola d’una foggia che ammalia e che impressiona, che commuove e che seduce. Tutto è racconto, non c’è nulla che cada fuori dai suoi confini, dice un personaggio di un romanzo di Cormac Mc Carthy. Raccontare è atto creativo per definizione, pochi ne sono davvero capaci, l’autore di Sconfinamenti è uno di questi. Il suo raccontare è in realtà un raccontarsi per nulla interessato ad illustrare aspetti autobiografici di superficie, quanto a dare corpo a quell’insieme di esperienze vissute, interiorizzate, che configurano un approccio profondo, spirituale alle cose del mondo: i filosofi tedeschi lo definiscono erlebnis.

            Un po’ come un racconto, la fotografia, modalità del raccontare, è un’eccedenza di realtà, una sporgenza proposta da un artificio che tuttavia con la realtà mantiene legami indicativi. Il racconto, la fotografia, le altre forme espressive che pur si avvalgono di un distinto profilo statutario, sono accomunate da una peculiarità, ovvero la conquista dell’autonomia mediante “parricidio”.

Credo cioè che ogni sconfinamento autentico si situi ben aldilà del confine, e sia un salto immane, un tradimento, “l’ingrato che distrugge ciò a cui deve se stesso”. Sconfinare comporta coraggio, forse persino spregiudicatezza, per distanziare decisamente ciò che è prossimo. Sconfinare è il sofferto, doloroso emanciparsi dalle certezze assicurate dal confine, per traguardare infine la “capacità di guardare il mondo con altri occhi”.

            Da più di quarant’anni Tano Siracusa ha orientato l’obiettivo fotografico, nelle contrade domestiche o nei sud del mondo, su ciò che, in quanto privo di consistenza, di riconoscibilità sociale, letteralmente fuori dalla vista, è di fatto invisibile: sconfinare è un modo per offrirgli qualche squarcio di visibilità.

Gli sguardi spenti dei dannati dell’ex Ospedale Psichiatrico di Agrigento o i portatori della gravosa vara del santo nero, coi volti ridotti a calchi corrosi dalla vita, apparizioni effimere di infuocate giornate di luglio, lesti a tornare alle periferie desolate da cui si sono sporti, appartengono in qualche maniera alla stessa schiatta dei pousse pousse, gli uomini-taxi del Madagascar, dei Mapuche laggiù in Cile o dei bambini laceri della foresta amazzonica:  tutti offesi da qualche privazione, patita docilmente, così sembra, quasi che si trattasse di una remota amputazione.

            A captare queste rovine e comporre dei reportage di rara finezza formale, non basta l’arsura conoscitiva o una salda tensione morale. Piuttosto occorre una sensibilità particolare, una speciale simpatia per l’afflizione che solo può essere avvertita se si è riusciti ad innestare la maturazione di una complessa educazione sentimentale in un’innata delicatezza d’animo.

            Gli scatti fotografici e i racconti prospettati da Sconfinamenti, ci dicono della vita generosa del suo autore, vocata in buona parte a intercettare ciò che residua agli occhi e al cuore del mondo per un destino che ha riservato ad un’ampia fetta d’umani la malattia, la povertà, l’irrilevanza: “così va il mondo nel buio e nella cenere”.

Il “parricidio” delle proprie origini sociali, l’indifferenza ad ogni possibile chimera, si sono ben inverati in una magnifica scrittura letteraria e fotografica, intessuta di pietà e di misericordia, riverbero di un potente slancio esistenziale. Ciò permette il riconoscimento, nella poetica che nutre Sconfinamenti, dell’intenso vibrare di un’anima pregiata.

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