ROSARIO LIVATINO, LO CONOSCEVO BENE di Ottavio Sferlazza

Sono ormai trascorsi oltre 33 anni dal sacrificio di Rosario Livatino in una scarpata in cui aveva cercato un disperato tentativo di fuga. In quella scarpata, quel giorno, quale sostituto in servizio presso la procura della Repubblica di Caltanissetta, dovetti scendere e sollevare il lenzuolo che pietosamente copriva il volto di Rosario Nella copertina interna di uno dei libri che mi sono più cari e che custodisco nella mia libreria, "Apologia di Socrate" di Platone (ed. Bompiani, a cura di Giovanni Reale), è riportata una profonda riflessione del grande scrittore e filosofo Albert Camus: Perché un pensiero cambi il mondo, bisogna che cambi prima la vita di colui che lo esprime. Che cambi in esempio". 1 Io vorrei sottolineare solo due aspetti della statura morale di Rosario Livatino. Il primo è la sua straordinaria coerenza, tanto nella vita privata come in quella pubblica, tra i valori e i principi nei quali credeva e che aveva esposto in alcuni rari momenti in cui aveva avuto l'opportunità di esprimere pubblicamente il suo pensiero, ed il concreto modo di interpretare sia il suo ruolo istituzionale, sia la normale quotidianità di una vita vissuta cristianamente. Per questo ho richiamato il pensiero di Albert Camus

Il secondo aspetto riguarda il suo modo di intendere la propria funzione che egli opportunamente indicava con l'espressione "rendere giustizia" che, a mio avviso, esprime qualcosa di più alto, di più profondamente interiore che il semplice "amministrare giustizia", che nella sua accezione un po' burocratica non è in grado di esprimere quell'intimo rapporto con Dio del magistrato credente o con il corpo sociale per il magistrato non credente. È straordinario che nel famoso frammento di Anassimandro, tramandatoci da Simplicio, contenente le prime parole a noi pervenute della filosofia occidentale, figura l'espressione "didònai diken" che si traduce come "rendere giustizia", che non sta ad indicare qualcosa che appartenga all'ambito umano e meno ancora al piano dei rapporti giuridici tra gli uomini. "Rendere giustizia" esprimeva il rispristino dell'ordine cosmico turbato da una precedente "adikia" che degrada in "akosmia", a disordine. Questo rendere giustizia era per Rosario Livatino anche "un atto di amore verso la persona giudicata" ed in questa prospettiva intrinsecamente ed autenticamente cristiana vorrei richiamare il pensiero del pastore luterano e martire della resistenza antinazista, Dietrich Bonhoffer, secondo cui il nostro rapporto con Dio è una nuova vita nell'esserci per altri" ("dasein für andere"), che illumina la vita del giusto il quale personifica quel cristianesimo non religioso di cui egli parlava. E questo esserci per l'altro non può non rinviare all'etica della libertà come responsabilità di Emmanuel Levinas per il quale il volto dell'altro ci rivolge un appello al quale non possiamo sottrarci, un appello che ci chiama a prenderci cura della sua esistenza. Ma c'è un'altra riflessione, che più di ogni altra mi ha colpito perché dà la misura della sua grandezza morale e della sua capacità di saper cogliere con la sua straordinaria sensibilità l'intima essenza del nostro lavoro e la stretta correlazione tra responsabilità, libertà ed autonomia : "il magistrato nel momento di decidere deve dismettere ogni vanità e soprattutto ogni superbia; deve avvertire tutto il peso del potere affidato alle sue mani, peso tanto più grande perché il potere è esercitato in libertà ed autonomia" . Questo rendere giustizia come atto di amore non significa "buonismo" e non ha impedito a Rosario di esercitare le sue funzioni con fermezza e determinazione nei confronti dei poteri criminali forti. C'è infine una riflessione conclusiva che vorrei fare: la sigla "Sub tutela dei" (S.T.D.). Confesso che quando mi sono imbattuto in quella sigla, mentre visionavo le agende di Rosario acquisite nel corso di una ispezione in punta di piedi del suo studio (non oso parlare di perquisizione perché mi sembrerebbe di profanare un tempio) ho pensato a qualcosa di esoterico ma anche ad una annotazione che, chissà, avrebbe potuto offrirmi uno spunto investigativo. In realtà Rosario con quella frase intendeva esprimere l'esigenza di porsi sotto lo sguardo di Dio, sotto la sua luce. Non dunque un ombrello protettivo per un lavoro difficile e rischioso ma un affidarsi, nel difficile compito di rendere giustizia, alla luce di Dio che rischiara la mente del giudicante per aiutarlo nell'ardua impresa di accertare la verità e rendere giustizia. Qui c'è tutta l'umiltà per le proprie debolezze, la consapevolezza della propria finitezza, dei propri limiti, quella "costruttiva contrizione" che deve ispirare l'attività del giudice "proteso a comprendere l'uomo che ha di fronte". La tutela di Dio non è dunque solo un affidarsi alla sua amorevole protezione ma alla fede nella sua immensa capacità e bontà - non essendo, direbbe Cartesio, un Dio Ingannatore – che, pertanto, mi dà la speranza certa di conseguire la verità. Ecco dunque il "piccolo giudice" , piccolo rispetto all'immane compito di giudicare e come dice Sciascia, "il dirlo piccolo mi è parso che ne misurasse la grandezza: per le cose tanto più forti di lui che aveva serenamente affrontato". In un momento storico in cui la magistratura ha toccato il punto più basso della propria credibilità e legittimazione morale di fronte alla collettività per il vulnus, forse irreparabile, provocato dalle indagini di Perugia su una certa gestione del potere consiliare ed associativo, io credo che il pensiero di Rosario Livatino e le sue riflessioni sulla giurisdizione possano e debbano costituire il patrimonio comune per la rifondazione etica della magistratura associata, per ripartire sulla base di un ritrovato orgoglio di appartenere alla più importante istituzione di uno stato costituzionale di diritto e per onorare la memoria di quei, purtroppo numerosi, magistrati, e non solo, che hanno sacrificato la loro vita per difendere la nostra democrazia.