Sssst…GIRA WIM WENDERS di Pepi Burgio  

Desiderosi d’immagini accorte celebriamo Perfect days  di Wim Wenders, come è giusto si faccia con un bel film. Intanto va rilevata la speciale atmosfera, densa di attenzione e di raro, assoluto silenzio che ha avvolto la sala durante la proiezione. “Man mano che le immagini scorrevano sullo schermo”, ha detto nell’incipit della sua recensione al film Elisabetta Marchiori della Società Psicanalitica Italiana, “una misteriosa pace impregnava mente e corpo, trasportandomi in quello stato simil-onirico come solo il vero Cinema può fare”. Vero, verissimo. Ciò detto, le felici scelte linguistiche, coerenti con l’opzione per un cinema di poesia verso cui il regista ha spesso orientato la propria sensibilità, sono soltanto alcune, certo non secondarie, per cui quest’ultima opera di Wenders è stata vista con schietta adesione da un pubblico stagionato che ha gradito discuterne anche nei giorni successivi alla proiezione.

Sarà per l’attenta insistenza riservata alla descrizione della solitudine del protagonista, e alla cura affettuosa di questi per le piccole piante; sarà per la grazia dei gesti nei piccoli spazi dell’ambiente domestico, sottratto appena all’oscurità da una flebile luce “mitigata e indiretta”, direbbe Jun'ichirō Tanizaki, “elemento estetico di grande importanza della casa giapponese”; sarà per le sue quotidiane ritualità e molto altro ancora, che chissà non rivelino fame di altrove, certo è che il regista ha saputo comporre tutto questo in un’opera delicata, agevolmente impressa nella coscienza degli spettatori, centrandone le inquietudini, le ansie, il male di vivere di un tempo frenetico e scomposto.

         Wenders lo ha fatto rammentando la particolare connessione affettiva con chi è piccolo o ingenuo, ricordandoci l’importanza di mantenere, nella riproduzione dei suoni e delle immagini, il tepore rassicurante dell’analogico per carpire, ad esempio,  un raggio di sole nel folto ordito dei rami di un albero; e, soprattutto, mettendo in risalto la virtù del silenzio, invocato in occidente in ogni tempo dalle sensibilità culturali più diverse, smentito tuttavia dall’incedere tumultuoso della modernità. L’attenzione particolare del regista all’esercizio pregiato del silenzio, ovvio rifletta aspetti costitutivi dell’ethos giapponese; ma mi piace pensare sia anche una forma di riconoscimento dell’influenza che, con La voce della luna, Fellini ha esercitato, in questo specifico caso,  sulla poetica di Wenders: “Se tutti facessimo un po’ di silenzio, forse qualcosa potremmo capire”, farà dire il maestro riminese al matto Salvini-Benigni.

         Ma appare oltremodo tardivo l’appello ad una improbabile resipiscenza corale; l’ossessivo brusio del penoso respiro di Tokyo, il groviglio delle strisce d’asfalto che nell’intersecarsi descrive spaesanti geometrie escheriane, suggerisce semmai la riproposizione di quanto Tullio Kezich ha scritto a proposito dell’invito al silenzio de La voce della luna: “siamo ormai amaramente consapevoli che il mondo del silenzio, della poesia e dell’estasi ci sta alle spalle; e che il nostro destino sarà quello di imboccare qualche vicolo per l’aldilà in mezzo a un chiasso indiavolato”.

 

         Mi chiedo infine se sia di qualche significato la ripresa della copertina di Le palme selvagge di Faulkner che il protagonista legge prima di addormentarsi. Azzardo un’interpretazione. L’alternarsi sul volto di Hirayama di cento fattezze espressive antitetiche, oscillanti fra la gaiezza e l’angoscia, nell’indimenticabile scena finale del film, esaltante la sontuosa maestria interpretativa di Kôji Yakusho, chissà non rimandi alle due storie parallele descritte dal romanzo di Faulkner; il quale nel suscitare in maniera indiretta interrogativi sull’esistenza, non contempla, al pari di Perfect days, la prevalenza di una condizione su un’altra, la risoluzione in una compiutezza o in un senso su un altro, tenendo conto in particolare degli imprevedibili esiti delle vicende narrate. Tutti i giorni sono perfetti in quanto si compiono, sembra sussurrarci la saggezza giapponese in un’opera che ha già raccolto un generale apprezzamento, tanto entusiasta quanto meritato, nonostante qualche eccedenza ideologica in un film molto bello ma non bellissimo.