IL VISCONTI AZZANNATO di Pepi Burgio

Qualcosa già sapevo, altre non era difficile intuirle, ma una copiosa teoria di informazioni l’ho trovata in un libro pubblicato da Feltrinelli nel 2022: Luchino, di Giovanni Testori, a cura di Giovanni Agosti. Scritto nel 1972, Luchino è una bella e importante pubblicazione poiché aggiunge alla grazia della prosa di Testori le preziose “note” di Agosti che impegnano gran parte del libro, svolte agevolmente  nonostante la mole della ricognizione filologica. Il pretesto per la lettura di Luchino mi è stato offerto dalla conversazione con un amico qualche settimana fa a proposito di Rocco e i suoi fratelli, film proposto dalla televisione e da entrambi rivisto.

Alle curiosità del mio interlocutore, soltanto parzialmente in quell’occasione, avevo saputo rispondere. Esse riguardavano le modalità di accoglimento dell’opera da parte del partito comunista e degli intellettuali, dal momento che Rocco sollecitava e sollecita ancora oggi un vortice di rifrazioni che vanno dalla tragedia greca alle profonde trasformazioni sociali degli anni ’60, passando da influenze vetero-testamentarie e, marcatamente, dostoieskiane. Giovanni Agosti con le sue “note” favorisce la ricostruzione di un’atmosfera culturale, di uno spazio di confronto il quale, nonostante certe esasperazioni soggettive, dovute più che altro a smanie polemiche, è stato frequentato da numerose personalità di spessore.

 

         Conoscevo già quanto forte fosse l’autorevolezza che a Visconti veniva assicurata dai massimi dirigenti del partito comunista: la sua casa romana di via Salaria, nei mesi drammatici che precedono la liberazione della città, era punto di riferimento per numerosi antifascisti. Lì si erano nascosti diversi esponenti dei Gruppi di Azione Patriottica (GAP), ai quali lo stesso regista apparteneva e, tra gli altri, Mauro Scoccimarro, una delle figure più importanti della Resistenza. Agosti ricorda che lo stesso Palmiro Togliatti, ben prima del sostegno dato a Il Gattopardo, si era già schierato apertamente, fin dall’immediato dopoguerra, con Visconti nelle molteplici discussioni animose che seguivano ai suoi allestimenti registici. Quanto incondizionato fosse il sostegno, politico più che estetico, di Togliatti alla produzione artistica del regista, viene ricordato da Agosti con il racconto di un episodio eloquente. A Gino Longo, figlio di quel Luigi Longo che nel 1964 sarebbe diventato segretario del partito, fu da Togliatti impedita la pubblicazione su Rinascita di una recensione, apparsa critica nei confronti di una regia teatrale di Visconti.

 

         Ma ritorniamo a Rocco, e alle perplessità e ai dubbi, quando non di aperto rifiuto, che vennero sollevati. Mario Praz, il grande anglista, considerava esagerata l’accentuazione realistica di certe sequenze del film, a suo giudizio intessuto di un “estetismo del laido e dell’efferato”. Anna Banti, la scrittrice nonché moglie di Roberto Longhi, che aveva già senza appello stroncato l’intera filmografia di Visconti, anche nei confronti di Rocco non fu tenera, valutandolo  inconsistente sia poeticamente che “da un punto di vista umano e sociale”. Articolato, certo non liquidatorio, fu il parere di Pier Paolo Pasolini, il quale però  ha svuotato la complessa poetica di Visconti riducendola alla “abilità favolosa del creatore di scene”. Pasolini, al cospetto di Rocco si disse “incerto”, e pur apprezzando nel film la mano del “grandissimo regista”, non gli riconobbe il  medesimo talento come autore. “Io - dirà il poeta - avrei richiesto a Visconti un maggiore coraggio di approfondimento psicologico: quello che rende complicate le cose, contraddittori i fatti, difficili gli avvenimenti”.

         Anche Goffredo Fofi, coerente con il furore ideologico che lo ha reso famoso, liquiderà disinvoltamente il film in quanto “esemplarmente equivoco”; e, con scarso avvertimento del proprio conformismo, denuncerà l’ “estetismo melodrammatico” di Visconti. Altri diranno qualcosa di analogo: è il caso del Gruppo 63 e della “banale ironia”, così la definisce Giovanni Agosti, di Umberto Eco in Diario Minimo. A formare una falange compatta di denigratori “a prescindere” di Visconti, si arruoleranno tra gli altri Marco Bellocchio e Giuseppe Ferrara. Ferrara, con un aggettivo destinato ad avere successo, definirà “reazionario” il regista milanese; attributo questo, scrive Agosti, che verrà esteso  a Guttuso, Moravia, Carlo Levi ed altri.

         A rendere doppiamente irritanti questi toni acidi e risentiti, è anche, escluso parzialmente Pasolini, la prosopopea, il tono oracolare, apodittico che li sostiene; nonché l’atteggiamento tout court oppositivo, adolescenziale, a prima vista inspiegabile specie quando promanano da sensibilità la cui attrezzatura culturale dovrebbe proteggere da rischiosi scivolamenti.

Testori invece, dopo aver fornito il soggetto per la realizzazione di  Rocco con i racconti de Il ponte della Ghisolfa, rivedendo la sceneggiatura aveva mosso dei rilievi critici fondati e apprezzabili circa la caratterizzazione iconica, pittorica di Rocco. Dice a tal proposito Giovanni Agosti: “Non lo convinceva il suo eccessivo ‘angelismo’, in particolare in relazione alla scena tra Rocco, immigrato a Milano da un paese della Basilicata, e la prostituta Nadia, già compagna di suo fratello Simone, che si svolge sul tetto del Duomo”. Testori riteneva troppo calcato il dostoieskismo di Rocco, intendendo alludere al personaggio di Alëša ne  I fratelli Karamazov, e al principe Myškin de L’idiota. Rocco, pensa Testori, dovrebbe essere “più caprone e meno gesù cristo”, poiché così come viene rappresentato “sembra preso di peso da un’altra epoca”.

         Ci sarebbe, volendo, di che discutere.