QUANDO LA POESIA OSA QUELLO CHE LA LOGICA VIETA di Pepi Burgio
Quando nel 1929 Martin Heidegger pubblica Che cos'è Metafisica? è già un filosofo conosciuto ed affermato. Infatti due anni prima ha prodotto il suo capolavoro Essere e Tempo, destinato a porsi come punto di riferimento imprescindibile per la cultura filosofica del '900 ed insieme, pur con qualche approssimazione, per la più ampia e variegata cerchia dell'intellettualità europea; convinta che l'importante saggio di Heidegger rappresenti la Bibbia dell'esistenzialismo. Soltanto nel 1946, con la Lettera sull'umanismo, il filosofo tedesco, in maniera esplicita prenderà le distanze dalla riduzione ontica, banalizzante, che la filosofia dell'esistenza ha compiuto della sua speculazione fondamentale; la quale invece intende porsi come ontologia esistenziale, con al centro l'interrogazione circa il senso dell'Essere.
Ma la questione, intrigante come non mai, adesso però qui non ci interessa. Ci interessa piuttosto quanto sul problema del linguaggio poetico è stato detto da Heidegger secondo l'interpretazione illuminante proposta da Franco Volpi, curatore per Adelphi di Che cos'è Metafisica?. Volpi ha successivamente riproposto alcune considerazioni contenute nella prefazione dell'opera, ma stavolta in maniera maggiormente esplicativa, nel corso di un'intervista rilasciata nel dicembre del 2007 al Centro studi ASIA; ovvero due anni prima che un incidente spegnesse per sempre il pensiero e la vita di una delle più importanti sensibilità filosofiche del '900.
Che cos'è Metafisica? è la "Prolusione" tenuta nel luglio del '29 da Heidegger all'Università di Friburgo, quando vi si era recato per succedere al suo maestro Edmund Husserl. Della "Prolusione" Franco Volpi ha messo in luce diversi aspetti riguardanti l'elaborazione filosofica di Heidegger, ma questi rivestono un interesse particolare per le reazioni ostili suscitate nelle più acute intelligenze, non solo filosofiche, del tempo. Walter Benjamin si riprometterà nientemeno di "fare a pezzi" assieme a Bertolt Brecht la "Prolusione", secondo un progetto di lettura critica successivamente accantonato; il positivismo logico e la filosofia analitica si opporranno decisamente allo spirito e alla lettera della lezione inaugurale heideggeriana; ma l'opposizione più radicale e veemente verrà da Rudolf Carnap, il grande logico tedesco trapiantato nel 1935 negli USA, autorevole membro del Circolo di Vienna nonché prestigioso teorico del neopositivismo. Per Carnap le proposizioni heideggeriane contenute nella "Prolusione", del tipo "il Niente nientifica", vanno rifiutate come insignificanti e inaccettabili poiché, sottraendosi ad ogni controllo empirico, costituiscono false affermazioni derivate da corto circuiti linguistici, avversarie delle regole sintattiche. Ricorda Franco Volpi nell'intervista a cui sopra si è fatto cenno, che per Carnap il compito della filosofia consiste nel verificare le condizioni di validità logico-grammaticali alle quali è necessario adeguare il nostro linguaggio, allorché vengono affrontati determinati problemi. Anche Ludwig Wittgenstein si confronterà con la "Prolusione" del '29, ma pur condividendo nel complesso la postura che identifica il Circolo di Vienna, assumerà un atteggiamento problematico nei confronti del saggio in questione; affermando di condividere sia il senso dei concetti heideggeriani di "Essere" e di "Angoscia", sia la motivazione alla base dell'insopprimibile tendenza dell'uomo a rivelare l'ineffabile, ciò che non può in alcun modo essere detto. In buona sostanza, ciò che della riflessione di Heidegger per Carnap va respinto, in quanto nonsenso metafisico espresso mediante un uso spregiudicato del linguaggio, per Wittgenstein invece, che pure nel Tractatus logico-philosophicus invitava a "nulla dire se non quello che può dirsi, cioè le proposizioni scientifiche", l'infrazione linguistica caratterizzante la "Prolusione", quel "avventarsi contro i limiti del linguaggio", andava valutata positivamente. Perché? È ancora Volpi a orientarci: mentre Carnap è interessato fondamentalmente ad individuare le condizioni logiche della validità del discorso filosofico, l'autore di Essere e Tempo va alla ricerca di un linguaggio non strumentale, di nuovi orizzonti di senso. Questa esigenza verrà pienamente condivisa, ma non esperita, da Wittgenstein, il quale scriverà in proposito: "L'etica, in quanto sgorga dal desiderio di dire qualcosa sul significato ultimo della vita, il bene assoluto, l'assoluto valore, non può essere una scienza. Ciò che dice non aggiunge nulla, in nessun senso, alla nostra conoscenza. Ma è un documento di una tendenza nell'animo umano che io personalmente non posso non rispettare profondamente e che non vorrei davvero mai, a costo della vita, porre in ridicolo".
C'è quindi un linguaggio che, ancora più adeguatamente di quello filosofico, può dischiudere aperture di senso ed individuare nuove risorse simboliche: è quello poetico, perché i poeti "dicono il taciuto", il nulla taciuto dal pensiero che calcola. Questo, diversamente da quello rassicurante del causalismo necessitante della stabilità scientifica, in quanto eccede la dimensione logica del calcolare, può solcare instabilmente il vasto oceano delle questioni etiche, religiose, mistiche, esistenziali, emotive, affettive. Il linguaggio della grande poesia, e in genere dell'arte, aperto al dubbio e all'incertezza poiché incuneato, dice ancora Volpi, in una dimensione umorale, è in grado, partendo dal riconoscimento dell' "Angoscia", di porre la domanda radicale circa il senso dell' "Essere". Noi, dice Heidegger, siamo motivati a interrogarci in maniera filosofica; purché venga bandita, aggiunge Franco Volpi, l'idea che la filosofia sia un sapere tecnico.
Di questa domanda radicale, profondamente libera, i poeti come Hölderlin, Rilke, Trakl e gli artisti come Van Gogh sono gli attori più puri.