LA FORZA DEL BELICE A QUARANT'ANNI DAL DISASTRO di Mauro Indelicato

“Che siete forestieri voi?” È la domanda, che mi ha profondamente colpito, con cui ha esordito un contadino alle porte di Menfi alla richiesta di informazioni stradali e che può sintetizzare emblematicamente l’animo ed il carattere schivo dei cittadini del Belice chiusi da secoli, come dicevano gli antichi, in un’enorme gabbia che va da Alcamo a Castelvetrano, da Menfi a Mazara del Vallo.
Mi trovo a Menfi in una tranquilla domenica mattina, perché invitato da alcuni amici di famiglia. La mia enorme curiosità non può non portarmi a ricordare che poche settimane fa, è stato il quarantesimo anniversario dal terremoto che ha scosso questa terra. Per cui, non appena arrivato, chiedo ad uno degli amici: “Ma quelle baracche sono dei rom o dei terremotati?” E lui, dopo un sarcastico ghigno, risponde “Sono ancora degli sfollati di quarant’anni fa”.
Non appena si accorge della mia faccia incredula, riprende: “ Beninteso, però, che ormai sono pressoché disabitate; ci sta solo qualche persona anziana che, furbescamente, lascia la casa ricostruita al figlio. Vieni, ti porto a fare un giro, tanto al pranzo mancano ancora due orette”.
Approfitto al volo di questa cortesia e ci mettiamo in macchina. Attraversiamo il grande Sole posto all’ingresso del centro abitato, un enorme monumento simbolo della ricostruzione, e rimango stupito positivamente: strade larghe, nessun casermone, palazzine a norme antisismiche con al massimo tre piani.
“Avete ricostruito bene” affermo.
“Beh, in effetti ci sentiamo al sicuro; in caso di nuovi sismi non accadrà più un’ecatombe come quarant’anni fa e il paese è attivissimo, specie da quando si è avviata l’industria del vino. Ma troppi anni sono passati per rivedere la normalità! E molte famiglie ancora non ce l’hanno!”
“Però a parte la lentezza, che in Sicilia è prassi, quali sono stati gli scandali del dopo-terremoto?”
“I soldi sono stati spesi male e a chiazze; infatti Menfi è risorta da poco, mentre i paesi del trapanese hanno subito avuto l’autostrada, vera e propria cattedrale nel deserto, che ha portato al paradosso che per spostarsi da Mazara a Palermo ci s’impiegava un’ora, mentre per percorrere Menfi-Mazara, fino a poco tempo fa ci stavo tre ore!”
Dopo un po’ ci dirigiamo verso Montevago, suo paese d’origine e mi racconta come ha vissuto personalmente quel terremoto.
“Stavo dormendo, l’indomani avevo scuola, e all’improvviso mi svegliai e vidi l’armadio di fronte a me muoversi bruscamente e sbriciolarsi! Dio solo sa come io e la mia famiglia siamo usciti vivi da quella casa, che tra le altre cose è crollata dopo tre giorni, durante una scossa di assestamento”.
Guardando la strada, mi accorgo di come, effettivamente, non tutte le zone sono state raggiunte dalla ricostruzione: si alternano campi ben coltivati (specie per la produzione di vino) a campi abbandonati; strade ben asfaltate, a strade al limite della praticabilità. Dopo venti minuti siamo a Montevago.
Anche qui noto una ricostruzione ben fatta, un bel monumento ai caduti di quel giorno, che qui sono stati più di duecento (su quattrocento totali).
Dal centro del paese ci rechiamo a piedi verso le rovine; non appena arriviamo, mi accorgo di un anziano seduto su una pietra, che guarda fisso davanti a sé.
“È qui ogni mattina, da quarant’anni a questa parte -mi dice l’amico- era uno studente di giurisprudenza a Palermo. Era lì quella notte, perché doveva dare il suo primo esame il giorno dopo; quando gli comunicarono la notizia del sisma, si è precipitato qui, ma non ha potuto far altro che riconoscere i corpi dei familiari. Rimasto solo, non si è dato più pace e ogni mattina siede sulla pietra che delimitava la sua casa”.
“Mamma mia, deve essere stato davvero uno strazio!” rispondo io e avrei voluto parlare con quel vecchietto, ma il mio amico mi ha invitato a lasciar stare con dei gesti.
“Vedi, quella era casa mia -mi indica con il braccio- pensa che prima di vedere i soccorsi abbiamo aspettato due giorni! Che periodaccio!” sbotta alla fine.
“E come mai tutto questo tempo?”
“Poca organizzazione! E poi non ci s’aspettava un simile evento qui! A quanto pare sia Roma che Palermo presero alla leggera la situazione e capirono dopo quarantott’ore che si era di fronte ad una calamità naturale!”
“Non c’era ancora la protezione civile…”
“No no, quella l’hanno messa in piedi dodici anni dopo; si è dovuta aspettare un’altra tragedia in Irpinia per farla funzionare!”
Assaggiamo un buon caffè nel bar del paese prima di rientrare.
Tornando a Menfi, percorriamo un tratto della famigerata “fondovalle”, che collega Sciacca a Palermo.
“All’epoca del terremoto non c’era questa strada – mi racconta – ma era in progetto. Quando l’hanno costruita si sono accorti che qualcosa non combaciava nelle dimensioni; ma non sbagliò l’architetto! Il terreno, grazie al sisma, si era letteralmente “girato” in un tratto. Così si è scoperto che questa strada è proprio sopra quella maledetta faglia che generò la tragedia!”
Arrivati a casa, gli altri amici quasi quasi, scherzosamente, ci menavano per il ritardo causato al pranzo domenicale (che qui è sacro).
“Ma chi facistivu?” domandò uno.
“Niente, ho fatto vedere a Mauro le rovine del terremoto”.
“Ah, il terremoto! Eh si si! Brutta tragedia quella!”
Quando poco dopo, però, arrivò la pasta a forno, tutti i musi lunghi per quel ricordo erano già passati.
Forse è proprio questa la forza di noi siciliani: riprendere subito il sorriso dopo i giorni tristi. E qui nel Belice il sorriso è più che mai necessario.

 
di Mauro Indelicato
(classe VF- Liceo Scientifico “Leonardo” di Agrigento)

 
Mauro ha 18 anni e vive ad Agrigento. Ama leggere e scrivere e fa parte di un gruppo folk. Si interessa di politica ed è molto attento alle vicende locali.

 

 
 

 

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