LA SINISTRA? NON AL LOFT, MA NELLE CURIE E A CINEMA di Tano Siracusa

I film Gomorra e Il Divo, dopo il successo di Cannes, hanno suscitato un coro di appassionate analisi sulla rinascita del grande cinema italiano. Per una volta le lodi, anche iperboliche, degli addetti ai lavori appaiono giustificate.Si tratta di due film molto belli, sicuramente accostabili per il rilievo che in entrambi assume la cifra formale, orientata, sia pure con movenze stilistiche assai diverse, verso una rappresentazione visionaria della realtà.
Più familiare, e anche più recente nei riferimenti storici (Fellini, Petri, forse un certo Ferreri) quella di Sorrentino: una visionarietà barocca, da tragedia seicentesca, dove il potere si rappresenta nelle forme surreali e grottesche, notturne, dell’incubo, e dove le voci umane si ascoltano bisbigliate, fruscianti nei palazzi, nelle chiese, nei confessionali.
Abbacinante, iperrealista invece quella di Garrone, una visionarietà anfetaminica, che perviene spesso a torsioni espressionistiche con l’uso ravvicinato, lenticolare, della cinepresa, per un montaggio dal ritmo sincopato, non privo di ardite connessioni sintattiche e, soprattutto, con un uso assolutamente sconvolgente del sonoro.
Ed è quest’ultimo aspetto del film che merita qualche considerazione ulteriore.
Il sonoro di Gomorra non è solo quello musicale, pure apprezzabilissimo, ma è soprattutto quello del parlato.
Un parlato - molto spesso un ‘gridato’, ‘urlato’ - in una lingua del tutto incomprensibile sull’intero territorio nazionale. Al di fuori di Napoli, certo, ma non dovunque e per chiunque: un’amica, nata e vissuta sempre a Napoli, ex insegnante, mi diceva di non avere capito molte delle battute fra i due ragazzi che nel film ripetutamente sgarrano e che alla fine vengono ammazzati.
Un parlato ‘straniero’ dunque, che rende necessario nella versione italiana l’uso delle didascalie.
L’impatto del sonoro sul pubblico italiano è perciò straniante, spaesante, mentre il pubblico internazionale è condannato ad una fruizione del film inevitabilmente diminuita, amputata
dall’impossibilità di percepire proprio quello scarto linguistico che solo lo spettatore italiano può cogliere e in cui consiste l’aspetto non solo formale, ma anche conoscitivo più rilevante del film.
E’ solo al nostro spaesamento di spettatori italiani che Gomorra può porre domande paradossali e inevitabili: dove siamo, dunque, a Scampia? Scampia dov’è? Chi sono, che storia hanno, da dove vengono, che lingua parlano i protagonisti del film?
Qualcuno ha osservato che potremmo essere a Mosca, qualcuno ha pensato a Bagdad. Ed erano persone di Mosca e di Bagdad a sostenerlo.
Di sicuro ci troviamo in un ‘altrove’ tragicamente esotico rispetto agli scenari mediatici, pure tanto degradati o gioiosamente mimetici, attraverso cui la nazione si autorappresenta.
Nel film va in scena insomma una specie di enclave, una nicchia antropologica nel cuore del territorio nazionale, un popolo che obbedisce a codici culturali e linguistici radicalmente ‘altri’, che a noi appaiono orribili e incomprensibili.
E’ dunque nel sonoro - paradosso solo apparente - la radice ultima del carattere visionario del film di Garrone, è nell’uso inevitabile delle didascalie la forza della sua denuncia.
A più di trenta anni dalla morte di Pasolini e della sua accorata denuncia dell’omologazione anche linguistica degli italiani, uno straordinario effetto di distorsione visionaria e di ‘scoperta’, di spiazzamento conoscitivo, viene affidato ad un uso diretto, non ‘doppiato’ delle parole.
Si è ricordata la lezione neorealista a proposito di Gomorra, ed era quasi inevitabile. Qualcuno forse avrà pensato a ‘La Terra trema’ di Visconti.
E tuttavia non c’era visionarietà nei film di Rossellini e De Sica, e neppure nel Visconti che si ispirava a Verga. La dimensione dialettale appariva infatti connessa ad un tessuto nazionale che sembrava destinato ad assorbirne la differenza. E la differenza non appariva come ‘alterità’.
Il muro linguistico del film di Garrone ci costringe invece a prendere atto che la differenza si è incistata ed è diventata radicale alterità. Linguistica, etica, antropologica.
Gomorra oggi ci può sbattere in faccia, nelle orecchie, che ‘gli altri’ siamo noi, sono cittadini italiani: che vanno a votare, che non vengono dai Balcani o dall’Africa, che gestiscono ingenti capitali accumulati in modo delinquenziale e che se commettono un qualunque reato avranno pene inferiori a quelle che da oggi verranno inflitte a chiunque, da clandestino, dovesse commettere lo stesso, identico reato. Loro, quelli di Scampia, non sono infatti ‘clandestini’ per la legge italiana. E sembra assurdo. L’ovvio sembra assurdo.
E’ stata perciò davvero una curiosa coincidenza quella fra l’uscita del film e gli assalti ai campi Rom da parte della camorra. Una coincidenza che ha aggiunto spiazzamento a spiazzamento, domande a domande: chi fra il popolo Rom e il popolo della camorra è più ‘altro’?
Chi, fra un picciotto della camorra strafatto di cocaina e con la pistola in tasca e un mendicante Rom al semaforo, è il più pericoloso?
Sono domande che il film inevitabilmente sollecita, ed è il suo grande merito culturale e politico oggi, mentre la destra al governo legifera violando elementari diritti umani sull’altare della difesa della ‘sicurezza’ e per conto di una percezione mostruosamente alterata della realtà, e mentre l’opposizione più convinta nel paese sembra quella dei vescovi italiani.
E’ il merito della grande arte, del grande cinema, far vedere il non visto, far apparire l’assurdità dell’ovvio e la sconcertante ovvietà dell’assurdo, suscitando e legittimando domande altrimenti difficilmente ammissibili.
I film di Sorrentino e di Garrone stanno in questo solco, quello del grande cinema italiano, spesso visionario per la necessità di oltrepassare le false evidenze della famosa percezione diffusa, e che storicamente si è sempre collocato a sinistra.
Si può dire questo, si può ricordare oggi? Non è troppo politicamente scorretto?
Da Rossellini a Visconti ad Antonioni a Rosi, da Fellini a Petri a Maselli a Germi (si, anche lui, era socialista), da Pasolini a Scola, Ferreri, Bellocchio, ai fratelli Taviani e a Bertolucci, passando per Moretti e Salvatores fino ad arrivare a Ciprì e Marescu, a Crialese, Sorrentino e Garrone, e con l’unica eccezione del grandissimo Olmi, che non è certo un cattolico di destra: autori diversissimi fra loro, ma tutti schierati a sinistra, in quel campo della cultura italiana oggi sotto processo, da cui l’Italia politica e il senso comune delle maggioranze nazionali prendono le distanze, e che storicamente ha dato dignità e prestigio internazionali al nostro cinema.
Grande cinema e di sinistra, ieri come oggi. Si può dire?
 
 
categorie: