EX MALO BONUM? LA CONSOLAZIONE DEL 'DIVO' di Vito Bianco

[img:1 align=center title=none]Si può rappresentare con gli strumenti del cinema la natura oscura e imperscrutabile del Potere, quello che scriviamo con la maiuscola e immaginiamo misterioso e carico di peccati? Si può, se a farlo è un autore di talento come Paolo Sorrentino che con Il Divo ha realizzato una biografia grottesca e visionaria di Giulio Andreotti, l’uomo dell’archivio segreto e delle famose battute, il politico più longevo dell’Italia repubblicana; un film che ha il suo punto di forza nell’ essere una spiazzante fenomenologia della commedia politica e dei suoi cinici, e talvolta ridicoli, rituali. In una parola, del suo sottosuolo.
Nell’opera di Sorrentino Andreotti è una funzione dell’essenza intima della sovranità democratica. E’ la figura più rappresentativa della dimensione opaca e non illuminabile del potere istituzionale. E’ l’uomo che si ritrova a impersonare tutta la gloria e tutta la miseria della potenza politica; la sacralità profana di uno Stato che per continuare ad esistere ha bisogno del segreto, dei servizi segreti, del silenzio assoluto.
Ecco perché l’Andreotti di Toni Servillo non esce quasi mai dalla penombra della casa-tana, o da quella ancora più protettiva del confessionale, dove potrebbe liberarsi dei peccati se solo la sua funzione di capo espiatorio di quel potere che ha cercato per tutta la vita (piange, quando per la prima volta diventa sottosegretario…) potesse permettere un autentico abbandono, un alleggerimento della coscienza a un uomo che da tempo è la nera coscienza nella quale si è specchiata per decenni la vita pubblica della nazione.
Ammirato e temuto, ossequiato e mai veramente amato, incatenato alla fantasmatica irrangiungibilità del potere, icona vivente della sua logica incomprensibile e arcana (gli “arcana imperii”), congelato nella coazione dei motti di spirito che lo tengono in vita, l’allievo di De Gasperi che per sette volte è stato capo del governo e per venticinque ministro è un uomo solo, ignoto a se stesso, smitizzato dalla moglie Livia, ossessionato dal ricordo di Aldo Moro nella “prigione del popolo”, che gli appare con un’espressione mite e afflitta, mentre nella testa gli risuonano le parole terribili: “Il mio sangue ricadrà su di voi”.
Sprofondato in se stesso, murato in una impassibilità burattinesca, il divo Giulio è consumato dal potere, che a quanto pare logora anche chi ce l’ha. E’ tormentato dall’emicrania, dall’insonnia, passeggia per il corridoio in preda all’ansia. Poi, al culmine della nevrosi, in un primo piano definitivo per tensione drammaturgica, rivolge alla macchina da presa un monologo che vorrebbe essere liberatorio ed è invece la dichiarazione lucida e delirante di una creatura condannata a essere che è. “Bisogna sapere amare il male per poter fare il bene”, confessa, con un grido stridulo. Così si paga il privilegio della potenza; con la distanza incolmabile tra sé e il mondo; con l’impossibilità di uscire da una funzione che ormai coincide con l’esistenza.
Il film di Paolo Sorrentino si colloca nel solco del nostro miglior cinema civile, ma ha uno scatto di invenzione e un’originalità compositiva che ne fanno già da ora un modello formale col quale i giovani autori non potranno fare a meno di confrontarsi. Sorrentino ha capito che la via antirealistica era la sola che poteva dare buoni risultati, di fronte a una materia complicata e sterminata come quella che si preparava ad affrontare. Ha scelto quindi un’impalcatura formale che gli permettesse di muoversi liberamente tra il presente degli anni ’90 e il passato recente e meno recente, con associazioni visive, riprese e variazioni, ritmando un contrappunto per immagini che ha come unico perno la sagoma sempre più terrea del suo protagonista, che rimane impassibile anche quando intorno a lui tutto prende ad agitarsi, a cambiare e poi a crollare come un castello di carte.
Il regista napoletano ha immaginato per noi un Giulio Andreotti più verodel vero, animando in modo magistrale un teatro di sussurri e grida, una tragicommedia costellata di figuri e figurine, enigmi e morti, una favola barocca che parla di noi, del paese in cui viviamo, di mezzo secolo della nostra storia. E’ un film originale, eccessivo, che cerca la massima potenza della macchina cinematografica, che osa, che ostenta ambizioni wellesiane; che scommette forte e vince.
Un film che difficilmente un funzionario della televisione pubblica trasmetterà in prima serata. Non è uno spettacolo per famiglie la vita intima dei potenti. Specie di quelli che sono ancora vivi.

 

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