LE RADICI DEL CAMBIAMENTO di Pietro Baiamonte

Raffaele mi ha cercato questa mattina. Con lui ho condiviso quattro anni dentro la scuola dove insegno, dove anche lui insegna; è un uomo impastato di terra e di sudore, uomo di tempra contadina, come fu suo padre, schietto, diretto, allergico alle finzioni quotidiane del vocio di superficie: come i contadini pesano i frutti strappati alla terra, Raffaele conosce e misura il peso delle parole; Raffaele sa che le parole legano, impongono responsabilità, ordinano fatti al loro seguito, specchiano la più nobile delle volontà di un uomo, che qui chiamiamo onore.
Mi raggiunge in una taverna, dove con altri colleghi consumiamo un veloce pasto nell’intervallo tra una riunione mattutina e quella pomeridiana. Ho seguito in televisione un dibattito politico a cui partecipava Giandomenico Vivacqua. E’ uomo colto-mi dice- d’intelligenza e sensibilità raffinatissime. Non è un politico e ciò è evidente-conclude. Mi piace parlare di politica con Raffaele: è stato per dieci anni sindaco di un paese della Valle dei Feudi e del Torto, conosciuto, a chi come me frequenta la statale per Palermo, come il paese delle stelle. Sembra il nome di un incantato villaggio di certe favole per bambini, per intemerati sognatori: rievoca in me l’essenza di un ozio vitale, di quando gli uomini interrogavano ancora la bellezza del firmamento, fonte dei desideri.
Interrogo spesso Raffaele su quell’esperienza: so che gli duole talvolta ritrovarsi di fronte ai ricordi di una primavera minima, nascosta topograficamente ed ignorata dalle luci della ribalta giornalistica; lo spingo a parlarmi delle volte che il suo ufficio di sindaco fu riempito dalle voci e dai gesti, misurati e per questo più minacciosi, dai sorrisi cortesi e per questo più taglienti, di quanti vollero imporre le leggi di un contesto corrotto: snocciola qualche nome, Raffaele, di quelli che si possono trovare nelle cronache giudiziarie dei processi per mafia degli ultimi anni. Allora la ragione del contendere era lo scavo delle strade e la disposizione dei tubi per portare il gas nelle abitazioni. Un’altra volta la distribuzione dei fondi per le migliorie viarie, o l’aggiudicazione di una gara, che secondo un feroce protocollo -il feroce protocollo diffuso nelle stanze di molte delle nostre amministrazioni- era da stabilirsi, come a tutti -e non solo agli intellettuali -è noto, al di sopra del bene della collettività. Cerco di immaginare il suo sguardo (gli occhi neri, fermi puntati contro quei sorrisi e quei gesti) mentre pronunciava, chiaro, il suo irrevocabile no. Allora lo vedo non come un donchisciotte, la figura smilza ed evanescente stagliata contro il crollo dei miti di allora, ma come il contadino che fu suo padre, a difendere la terra faticosa ed i suoi frutti, con la cocciutaggine indurita da secoli di desiderio.
Non è un politico”. Tengo al suo parere, mi convincono i suoi ragionamenti, per cui nei miei occhi dovette cogliere lo smarrimento : il giudizio, definitivo, gelava la speranza di una nuova primavera con cui altri, più di me, ed io abbiamo seguito la campagna elettorale di Giandomenico. Fu per questo che sorridendo aggiunse:” si, non è un politico: per questo credo che non possa farcela, e per ciò stesso deve vincere: è con uomini come questi che si può sradicare la gramigna che infesta la politica delle nostre terre”. Già, la consueta gramigna, nutrita da anni di illusioni vendute al prezzo di una mediocre sistemazione, da precari il più delle volte, e che ha giustificato gli ossequi dei tanti, troppi clienti che un simile obbrobrio hanno sostenuto; e ciò non può avvenire attraverso un percorso lento, ma con la forza, partorita da una volontà diffusa e consapevole, di un modo nuovo di concepire la politica, di riportarla al suo ruolo vero, naturale, guardando al fine che gli uomini le hanno assegnato e che è il bene della comunità. Nei discorsi di Giandomenico, e nel suo modo di darsi agli amici, ai colleghi, agli emarginati (la cui umana e commossa partecipazione è testimoniata dagli articoli scritti per fuorivista, dalle numerose visite che mi fece nella sede del centro di accoglienza per rifugiati) risuonano parole e gesti che dicono, senza ambiguità, della sua capacità di includere, di ascoltare, di comprendere. Ma dicono anche della forza che anima le sue convinzioni, i suoi principi. Giandomenico non è un politico (nell’accezione appesantita d’infamia che oggi si lega indissolubilmente a tale aggettivo); ma anche Giandomenico sa che le parole legano ad una responsabilità innegabile, che devono predisporre atti conseguenti. Per questo è difficile che vinca, irriconoscibile come politico. Per ciò stesso ( in nome di quella politica, al di sopra del relativismo etico dei nostri tempi, che incarna i sogni di una comunità) Giandomenico deve vincere.