HO VISTO 'BAARIA' AL SUPERCINEMA DI BAGHERIA di Adriana Iacono

I baarioti applaudono con poca convinzione. Una donna azzarda un commento:è la nostra storia ma non è da oscar. Se diamo al tempo una dimensione circolare siamo in fila all'ingresso, i miei amici e io, biglietti alla mano a farci largo nella ressa. Ancora non so che il Supercinema è lo stesso Littorio/Vittoria che vedrò sullo schermo. Il commento autorevole della signora, condivisibile col senno di poi ma non con quello di prima (sempre che esista un senno di prima), è una prognosi riservata, un mah! in cerca di risposte, un enigma che aspetta di essere risolto. Entriamo. Sullo schermo il marchio di produzione, per sua natura tentacolare, insinua sospetti. Nonostante le premesse allungo le gambe e mi metto comoda. Mi sento ben disposta, poco incline ai preconcetti. Ancora non lo so ma sono al centro del Cinema. Sono in un film nel film. Sono, e questo lo so, a Baaria l'ombelico della pellicola, se ne avesse uno.

La storia parte con una corsa e un volo planare. Rapidamente si avvia, si muove, scorre. Si avvita come una trottola trascinando con sé fatti grandi e piccoli. I movimenti di massa sono un vento frenetico, folate scomposte ora in una direzione ora in un'altra. Molte raffiche intense che attraversano una piazza o irrompono in un palazzo e qualche pausa di respiro. Il realismo è magico. La storia familiare collettiva.

Il cinema è la piazza, la piazza il cinema. Talé cu c'è, Tanu Aronica. Talé Peppi u Babbo. Talé Ficarra, talé Picuni. La parlata è magnifica. Mii i corna arrizzano! (I corna? Scopro una variante e la perfetta interscambiabilità con i carni). Gesti arcaici da antropologia culturale e capre Giurgintane.

La storia di questo Heimat nostrano si avvita con un movimento circolare, le generazioni si alternano, la modernità incombe. Gli animali lasciano il posto alle macchine, gli antifascisti diventano comunisti, i loro figli fanno assemblee, le ragazze portano minigonne. Sullo sfondo assessori ciechi approvano piani regolatori e intascano buste piene di soldi.

Sullo schermo si aprono le porte del Supercinema. Mii! Ca su, ca su, il pubblico mormora e si stupisce. È qua, è arrivato. Il Cinema mi prende alle spalle. Sprofondo in una meta realtà. Metà realtà, metà finzione. Da qui capisco meglio: è fiction. Non c’è tempo di approfondire. Comparse, costumi, ricostruzioni, divi e cachet. E' autobiografia e fiction industriale in pompa magna. Hollywood bussa alla porta e chiede di entrare. Splendida superficie, ma la poetica non è scomparsa è spostata: è nello sguardo, nella lingua, nell’accumulo di dettagli. È il gesto amorevole e tutto isolano di fare una conserva per l’inverno: impresa titanica. Alcuni barattoli non sono all'altezza ma altri sono così sublimi da giustificare il dispendio di soldi ed energie. Il finale è lo smarrimento (bellissimo) del padre-bambino in un luogo che non riconosce, è il passaggio (meno bello) del testimone al figlio-bambino. La mosca salta fuori dalla trottola rotta, la storia è inceppata ma ancora vitale.

Le luci si accendono. Fuori dalla sala riconosco il pavimento dai colori sgargianti e per un attimo non capisco. Piccola vertigine. Non dovevo saltare i titoli di coda.
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