TRIONFO A SAN SIRO DEI 'PROMESSI SPOSI' DI GUARDI' E FLORA di Giovanni di Girgenti

Cosa spinge 20mila persone a salutare con un'ovazione la conclusione dell'opera moderna 'I Promessi Sposi' di Pippo Flora e Michele Guardì messa in scena allo stadio san Siro sabato scorso? Come spiegare gli applausi scroscianti a conclusione di ognuno dei quadri che raccontano la storia di Renzo e Lucia? Una storia da tutti conosciuta, una storia che non riserva imprevisti, e tuttavia una storia che nella colossale teatralizzazione proposta da Guardì riesce ancora miracolosamente ad emozionare fino alle lacrime migliaia di persone.

Le musiche di Pippo Flora possono dare già una prima spiegazione. Musiche intense, avvolgenti, ma anche evocatrici di speranze, di tenerezze. Poi la stupefacente macchina scenografica che dispone all'incanto; e certo anche i costumi, filologicamente ricostruiti con estrema eleganza; e anche, non c'è dubbio, le invenzioni sceniche visionarie, sul modello del migliore Fellini, come quelle che accompagnano l'incubo notturno di don Abbondio con la tela di ragno del potere inappellabile e minaccioso o quella dell'Azzeccagarbugli con il corteo della prepotenza travestita da 'Iustitia'.
Tutto questo ed altro ancora, le luci, i movimenti coreografici, aiutano a rispondere alla domanda iniziale. Ma non bastano. Ci voleva una straordinaria capacità di mettere insieme tutte queste cose e di cogliere il nocciolo della storia di un romanzo che tutti crediamo di conoscere e che invece sembra poterci riservare sorprese continue. E qui entra in gioco Michele Guardì.
Organizzatore ineguagliabile, curatore maniacale di ogni dettaglio, eterno fanciullo e dunque poeticamente visionario, con una capacità unica di mettere insieme raffinatezza e popolarità, spinta anarchica e liturgia istituzionale. I suoi Promessi Sposi raccontano l'Italia possibile, l'Italia sentimentale che contro ogni prepotenza, ogni fragilità, ritrova la via del bene forte di un ancoraggio solido ai valori del cattolicesimo democratico, l'Italia del gran lombardo, Alessandro Manzoni, la cui vocazione nazionale oggi parla, per un singolare effetto dell'astuzia della ragione, attraverso l'estro artistico di due agrigentini che lo hanno ricordato dentro il duomo prima e allo stadio di san Siro dopo.