FAMO A CAPISSE di Dante Bernini

La copertina del “Venerdì di Repubblica” datato 25 sett.’09 aveva un titolo che nella sua sgrammaticata semplicità metteva raccapriccio (l’enfasi è d’obbligo): su un fondo verde-Lega col volto corrucciato del ministro Bossi, si annunciava o si ingiungeva: “Facciamo a capirci” che chiunque viva a Roma o vi sia rimasto qualche tempo, frequentando bar e trattorie, o semplicemente le strade affollate, traduce istintivamente nel trasteverino “famo a capisse”. Ignoro come si dica in bergamasco, ma sarebbe comunque ben triste rinunciare all’italiano, lingua compiuta e istituzionalizzata, per un rozzo linguaggio che la politica della Lega o chissà di chi altri vorrebbe imporci con uno sdrucciolevole percorso “dialetto-lingua-dialetto” peraltro già preso in considerazione in termini appropriati da  uomini di dottrina, come ad esempio il Gramsci dei Quaderni dal carcere, certamente più avvertitiin fatto di lingua e letteratura, senza offesa per alcuno, di un pur stimabile “titolista
Ciò per avvertire che l’interesse per il dialetto viene da molto lontano, sfiorando la stessa questione della formazione dell’Unità nazionale. Ma all’improvviso pare che si prenda atto di quella che, per usare una ormai sdrucita metafora, peraltro ancora molto di moda, si può con qualche improprietà, definire “deriva”, in fondo alla quale c’è l’amara conclusione che (riporto da “La Repubblica”, 18 genn.’10), Non sappiamo più l’italiano, e quindi, a pioggia: l’italiano sconosciuto;  sul Web la Crusca scioglie tutti i dubbi / sportello online dell’Accademia, record di richieste; molte domande sui congiuntivi, sul plurale di euro e sul femminile di avvocato; l’ortografia (come Fausto Coppi) è in testa, ma vengono inviati anche quesiti sul lessico o sui neologismi. Più che titoli o sottotitoli e titoletti, sono voci esasperate di sconfitta, richieste di aiuto spesso lasciate inevase. E’ il disorientamento di chi si trova, d’un tratto, a contatto con uno straniero che parla una sua lingua ignota ai più, così condannato all’isolamento, come il marinaio norvegese protagonista della novella pirandelliana “Lontano”. Si chiamava Lars  Cleen, ammalatosi, era stato necessariamente sbarcato dalla sua nave e così affidato alle cure del rappresentante della Scandinavia a Porto Empedocle, un pescatore soprannominato don Paranza, che fungeva da viceconsole e da interprete con quel poco di francese che conosceva. Il marinaio, il cui nome fu adattato subito all’ambiente, trasformandosi in l’arsu .che nel dialetto del luogo vuol dire “il bruciato” o qualcosa del genere. Tralasciando la lunga vicenda inventata dal narratore, concludiamo col marinaio Lars o L’arsu che bene o male catturato dalla nuova vita in un luogo sconosciuto, vi prese moglie generando un figlio; e tuttavia quando il suo piroscafo che frattanto era andato in America e ne tornava, approdò di nuovo in quel porto quasi sconosciuto, “si precipitò su una lancia e volò a bordo del suo piroscafo col cuore in tumulto. Non ragionava più. Ah, partire, fuggire coi suoi compagni, parlare di nuovo la sua lingua, sentirsi in patria…fuggire da quell’esilio, da quella morte”.
Patria e dialetto si identificano, dunque, e di conseguenza, tornare al dialetto vorrebbe dire rientrare dall’esilio. Il vezzo dialettale, se così può chiamarsi, sta facendo molte vittime tra scrittori inesperti, per non dire improvvisati, e tra gli stessi lettori che si sentono traditi nelle loro aspettative di testi trasparenti e - perché no? - gradevoli. Tra i primi a fare ai nostri tempi, in concomitanza con gli esperimenti pasoliniani,  un uso letterario del dialetto (siciliano nella fattispecie, come il friulano certamente più ostico fu nel caso di Pasolini) è stato Andrea Camilleri, il cui successo immenso e, come oggi si direbbe, trasversale può da solo accreditare il fenomeno quale esito inevitabile della ricerca letteraria in Italia e nel nostro tempo. Il fatto induce a una riflessione particolare sulla natura del fenomeno stesso, sulle sue origini e sul significato che esso ha acquistato tra i contemporanei. C’è un inganno, o una distrazione alla fonte: Camilleri non usa il dialetto siciliano o, se vogliamo, vigatese, cioè del suo ambiente nativo, come il suo protagonista commissario Montalbano non parla quello stesso dialetto. Di fatto il mezzo di comunicazione è il risultato di una delicata e complessa elaborazione che può paragonarsi, con la prudenza d’obbligo, cioè con salvezza, come dicono i giuristi, di ogni altra eccezione o precisazione, a quella compiuta dagli umanisti agli inizi del Rinascimento italiano. Gli umanisti infatti non usarono il latino di Cicerone, per le ragioni che ciascun lettore certamente trova da sé, nella sua condizione storica, se non già antropologica. Come a suo tempo osservava uno dei massimi studiosi del Rinascimento italiano, Eugenio Garin a proposito della letteratura umanistica: “Già la lingua, un latino elegante rielaborato studiosamente sui classici, pur non escludendo il volgare, ….non nasconde, in più d’un caso, l’artificio, il lavorio dell’imitazione e quasi dell’intarsio. Non è il “barbaro” latino medievale, ma non è il latino di Cicerone. E’ una lingua artificiale…”.
Questa sorta di ricetta filologica può applicarsi, quasi naturalmente, all’operazione linguistica compiuta da Camilleri, avendo l’avvertenza, oltre che di calcolare bene le diverse dimensioni del problema,  di rovesciarne esattamente i termini, dove cioè il latino elegante quanto artificioso prenda il posto del dialetto e il “barbaro” volgare ascenda all’altezza della lingua colta,: come a dire che Catarella ma anche Montalbano parlino nella dimensione dell’assurdo una lingua forbita, , e nella medesima dimensione la lingua italiana si sia quasi volatilizzata dai racconti di Camilleri, avvolta forse in una estrosa  nuvola fiabesca. E a proposito di fiaba, mi permetto di consigliare ai lettori  di Camilleri, di procurarsi, se già non l’hanno fatto, il prezioso libretto edito da Garzanti in anni ormai lontani col titolo Un filo di fumo che alla prima lettura mi parve, come subito rivelai all’amico Andrea, consumato uomo di teatro, un balletto forse di ninfe o di elfi su sfondo rispettivamente marino o boschereccio, tale e  tanta essendo la leggerezza come la rapidità dell’azione, qualità in cui si realizza la metamorfosi, dal fiabesco appunto, in godibile teatro, riscattando così la tristezza degli “scagni” dei mercanti di zolfo, da cui si trovò respinto, sui moli di Porto Empedocle ardenti di quel minerale e di umana fatica, il giovane Pirandello agli inizi della ricerca del suo destino.
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