AGRIGENTO. ATTO FINALE DELLA DISTRUZIONE DEL CENTRO STORICO? di Tano Siracusa

Si torna a discutere di centro storico di Agrigento, e questa volta in riferimento ad un concreto e massiccio intervento pubblico-privato che si vorrebbe realizzare in Terravecchia. Si ha stavolta la sensazione di un passaggio importante, probabilmente decisivo, dopo il quale potrebbe inaugurarsi la fase del definitivo disfacimento del tessuto urbano della città storica o quella di un suo tardivo ma per questo ancor più auspicabile recupero. Già si parla, dopo Terravecchia, di un successivo, analogo intervento in quel vasto comparto abitativo che da via Atenea si estende fino a Piazza Ravanusella, dove, come in Terravecchia, si sono verificati numerosi crolli.

Se ne parla ma non abbastanza: di sicuro assai poco se ne è parlato finora, almeno da parte del Comune. E viene da chiedersi perché. Come mai il sindaco Zambuto ha voluto aspettare la conferenza stampa di Miccichè e le sue denunce per convocare una sua conferenza stampa e presentare quel progetto come un fiore all’occhiello della sua amministrazione?

Sarebbe stato opportuno, prima ancora di informare i cittadini su scelte già fatte, coinvolgerli in una discussione sul futuro di Terravecchia e dell’intero centro storico. Anche perché il basso profilo tenuto fino a pochi giorni fa dall’ amministrazione Zambuto sulla vicenda autorizza più di un sospetto.

Sembra quasi, ad esempio, che l’abbandono, il degrado estremo e quindi i crolli costituiscano un fondamentale prerequisito per meritare l’attenzione del Comune e delle imprese, per attivare progetti e mobilitare capitali. Dopo Terravecchia via Gallo e dintorni, e poi magari Santa Croce. L’abbandono il degrado e i crolli come prerequisito del ‘‘ripristino’’?

Il tema principale, che avrebbe appunto meritato una discussione, non è tanto il possibile risvolto speculativo di questo approccio, quanto la sua dubbia funzionalità rispetto al recupero delle forme storiche del nostro abitare. Perché è questa in definitiva la ‘‘qualità’’ dei centri storici, delle città in pietra, e questo l’obiettivo da perseguire: la loro differenza rispetto alle città di cemento e asfalto da cui sono circondati.

Se fosse questa l’idea, la qualità di un differente modo di abitare che ritrova nel passato il contesto per un oltrepassamento del ‘‘moderno’’ e per un confronto realistico con la contemporaneità, non dovrebbero esserci dubbi: fra il ripristino del già e non più esistente e il restauro dell’ancora esistente bisognerebbe decisamente privilegiare il secondo. Quello che offre maggiori garanzie di salvaguardia della principale risorsa di molti centri storici e sicuramente del nostro: quel tessuto urbanistico complesso, delicatissimo, che ha modellato un’originale cifra di ibridazione fra spazio pubblico e privato e che, mentre il bisturi del restauro dell’ancora esistente può proteggere e riqualificare, l’accetta del ‘ripristino’ del non più esistente rischia comunque di sconvolgere.

E’ questa, a mio parere, la principale obiezione al progetto Terravecchia, che prevede comunque l’edificazione di 38 nuovi alloggi dove oggi non c’è più niente e al posto di fabbricati da demolire.

Sarebbe stato e sarebbe più sensato, più prudente e lungimirante, a voler tener conto anche della particolare e delicatissima struttura del sottosuolo in quella zona, dei materiali di interesse storico e archeologico che custodisce, utilizzare le risorse disponibili per un recupero del patrimonio abitativo esistente e per una riqualificazione del tessuto urbano medievale orientata al ripristino delle sue originali ricchezze: il silenzio, lo spazio da percorrere e attraversare nelle sue offerte di incontro e socialità, l’irregolarità delle geometrie e la loro funzionalità comunitaria, la peculiarità dei materiali di superficie, a cominciare dal nostro tufo fino alla ripavimentazione in pietra delle strade.

Sembra un paradosso che si discuta oggi della demolizione di abitazioni in tufo quando non si è mai riusciti ad avviare ad Agrigento una seria discussione sulla demolizione dei mastodontici fabbricati in cemento, sorti a schermare cinquanta anni fa la vista sulla valle dalle abitazioni in tufo del centro storico. Ed è un paradosso che si può spiegare soltanto con l’ostinazione con cui questa città si rifiuta di fare i conti con il suo passato recente, cioè poi con il rapporto fra l’eredità della storia e le logiche della modernità.

Ciò che ha spezzato l’equilibrio urbanistico della nostra città non è stato infatti tanto il ‘‘moderno’’, quanto la particolare declinazione che da noi ha assunto: la verticalità delle torri condominiali in cemento, della loro astratta serialità, che non si è solamente ammassata a ridosso della città medievale, ma vi è penetrata e vi si è incistata, mentre il flusso delle automobili invadeva l’intricata capillarità del tessuto viario.

Qui il moderno non ha solo assediato ma ha invaso lo spazio urbano preesistente, cioè il sedimento materiale di una storia millenaria, rischiando di cancellarne la differenza, di omologarla alle forme abitative ‘esterne’. Altrove, in Italia e in Europa, non è andata così. Le tradizionali forme dell’abitare sono state protette e difese con successo dall’invasività dei modelli urbanistici e abitativi moderni, restituendo un’alternativa alla coabitazione condominiale , che recide ogni legame comunitario, e ad una progettazione urbanistica comandata delle esigenze delle automobili, che divorano gli spazi destinati allo scambio sociale, cancellandone il senso e i materiali.

Il progetto di Terravecchia ha il merito di evidenziare l’arretratezza e la reticenza della discussione sul futuro del nostro centro storico.

Qui ad Agrigento cosa si vuol fare? Quale rapporto, quale differenza, fra vecchio e nuovo, storico e moderno, si vuol perseguire? Si è capaci in questa città di pensare ad un ripopolamento del nostro centro storico che proceda parallelamente allo svuotamento del flusso automobilistico?

Su questo tema, quello della mobilità nel centro storico, il ritardo nella discussione è particolarmente grave. In molti dei centri storici italiani, grandi e piccoli, pianeggianti o collinari, si sono avviati in questi anni processi di massiccia espulsione delle automobili e di restituzione degli spazi urbani alla fruizione estetica e alla possibilità di una riconfigurazione sociale del loro uso. Senza andare lontano, è oggi questa l’esperienza di Catania, Ortigia, Ragusa Ibla, esperienza premiata dai flussi turistici e dal mercato.

Ad Agrigento si progetta invece Terravecchia e si ragiona seriamente su un surreale raddoppio di via Empedocle. Ma ad Agrigento come altrove nessun serio impegno progettuale teso al recupero dei centri storici medievali, della loro alterità rispetto al modello abitativo delle periferie, può prescindere da una prospettiva di progressiva espulsione del traffico veicolare dal loro tessuto viario intricato, stretto, spezzato, realizzato per un’umanità non ancora motorizzata e orientata allo scambio sociale dalla stessa configurazione dello spazio urbano. Solo in un quadro di coerente e realistica pedonalizzazione della vecchia città murata ha senso progettare l’installazione di scale mobili e delle più avanzate tecnologie, sicuramente utili per soddisfare il bisogno di mobilità soprattutto della popolazione più anziana.

Il progetto Terravecchia non sembra andare in questa direzione, casomai sembra inserirsi in una visione del rapporto fra il nuovo e il vecchio, fra il moderno e lo storico, che tende a negare la problematicità e complessità del loro reciproco innestarsi e sembra promuovere la logica brutale del fatto compiuto: se il vecchio è crollato, se è scomparso, il problema del rapporto con il moderno ha cessato di porsi.

Il rischio che la sottovalutazione del problema o la sua elusione possano trasformare la ‘ strategia del ripristino’ nell’atto finale della distruzione del centro storico della città – del suo centro - esiste.

Il progetto Terravecchia, e gli altri a seguire annunciati da Marco Zambuto saranno comunque l’inizio di una fase nuova. Rompere l’indifferenza e il silenzio che ne hanno accompagnato la incubazione è la prima condizione per fronteggiare quel rischio.