VAN GOGH, SULLA SOGLIA DELL'ETERNITA' di Tano Siracusa

Non so se qualcuno abbia scritto sul successo che sta riscuotendo in sala il film di Schnabel su Van Gogh. Un successo per molti versi sorprendente, difficilmente spiegabile. Dopo un formidabile lancio pubblicitario sui media televisivi, il film in Italia è uscito il 3 gennaio piuttosto in sordina. Dopo due settimane è il quinto film più visto nelle sale italiane. Un successo commerciale.

Il fatto è abbastanza sorprendente perché ’Van Gogh, sulla soglia dell’eternità’ è un film che ha tutte le caratteristiche dell’opera d’autore, dall’uso non pretestuoso del soggetto storico - uno scorcio biografico del pittore olandese - alla sceneggiatura che dirada i dialoghi, dall’uso spiazzante delle musiche originali e del sonoro, dal montaggio scandito da sconnessioni temporali e sintattiche  alla oltranzistica cifra visionaria dello stile.

Sono andato a vederlo due volte. All’unica proiezione della prima serata, un giovedì, eravamo una decina di spettatori. Entrando la sala si svuotava di decine di ragazzini che avevano visto un cartoon lasciando sulle poltrone e sul pavimento luccicanti e festosi involucri di patatine e di altre risorse alimentari. Sono tornato a vederlo domenica in una sala quasi piena. Durante alcune memorabili sequenze lampeggiavano i cellulari e volavano fuori della sala messaggi e faccine. Il film ha doppiato la settimana, un successo probabilmente inatteso dagli stessi gestori del cinema.

Il film di Schnabel è molto ambizioso e dà l’impressione di avere setacciato buona parte della sterminata letteratura su van Gogh. A cominciare dall’epistolario ovviamente, dai libri di Gauguin, dalle testimonianze sparse dei contemporanei, per finire alla monumentale biografia di Steven Naifeh e Gregory White Smith, inspiegabilmente non tradotta ancora dall’inglese in nessuna lingua, che invalida la tesi del suicidio attribuendo la morte del pittore al colpo partito involontariamente dalla pistola di un conoscente ubriaco.

La biografia dei due studiosi è del 2011 e aveva già ispirato il magnifico ‘Loving Vincent’, geniale film di animazione creato dalla collaborazione di centinaia di artisti di tutto il mondo.

Ma l’ambizione del film di Schnabel non sembra legata tanto al rigore del revisionismo biografico, dove pure alcune ricostruzioni, a cominciare dalla figura di Gauguin, rimangono problematiche, quanto al tentativo di restituire la traiettoria spirituale, artistica ed estetica di Van Gogh, che proprio dal confronto con Gauguin emerge nel film con molta precisione: per il pittore olandese la pittura presuppone il vedere, per il francese l’immaginare.

Nel formidabile colloquio con il sacerdote cattolico che precede l’abbandono di St.Remis il pittore sostiene che con la sua pittura, l’unico talento che Dio gli ha dato, vuol far vedere agli altri ciò che gli altri non vedono, la bellezza, quella rapinosa bellezza che c’è in un campo di girasoli, nelle sue scarpe, in un cipresso che si contorce come una fiamma, nello sguardo di Gachet.

La felice invenzione degli sceneggiatori che affida al dialogo col sacerdote (un magnifico Mads Mikkelsen) la sintesi di tutto un versante dell’epistolario, non si aggiunge come una pedanteria didascalica rimanendo immersa nel flusso di sequenze ondeggianti, camera in spalla, che accompagna il pittore da un (finalmente credibile) caffè parigino del 1886 alle campagne di Arles, nello stordimento del mistral e della luce e della solitudine in una miserabile stamberga, in una Arles notturna inaspettatamente buia, misteriosa, e poi nei cerchi della reclusione di St. Remis, in un alternarsi di sequenze oniriche, alcune affidate all’azzardo estremo di una ‘soggettiva’ dominata dalle distorsioni cromatiche, in giallo naturalmente, e di fuoco. E’ in questo contesto che il film di Schnabel rende plausibili anche le sequenze sui rapimenti estatici del pittore.

Un film ambizioso e rigoroso, malgrado i ‘tagli’: tutti gli altri personaggi rimangono infatti sfocati (Theo) o assenti (Toluouse Lautrec, Emile Bernard, Johanna, la cognata, decisiva per l’affermazione postuma dell’opera), ad eccezione di Gauguin, di cui vengono omessi giudizi sprezzanti sul pittore olandese.

Un film ambizioso e anacronistico se si considera il contesto in cui viene proposto.

Cosa ha a che fare un uomo come Van Vogh e cosa le sue convinzioni estetiche con il panorama contemporaneo? Con il cinismo, il supermercato del nichilismo a buon mercato, con tutta la plastica e la spazzatura che è tracimata nelle gallerie e nei musei, a cinema. Deve esserci stato un passaparola. Chi ha visto il film ha detto agli altri di andarlo vedere. Perché? Soltanto perché quello di Schnabel è un magnifico film? Eppure registi come Malick o Sokurov o come il giovane Xavier Dolan, non meno coerenti e visionari, non hanno questo successo di pubblico. In sala spesso non arrivano neppure.

Potrebbe essere un segnale, un indicatore, un annuncio. A volte anche il successo inatteso di un film può esserlo. Come un sintagma può esserlo di una frase o la frase di un nuovo o di un vecchio racconto. Un vecchio racconto più che di William Shakespeare, come nel film, di Dostoevskij, del suo dolce principe idiota che proclamava in un momento di entusiasmo che la bellezza avrebbe salvato il mondo. Magari cominciando a spegnere i cellulari durante la proiezione dei film.

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