AGRIGENTO, NON TI RICONOSCO di Alfonso M. Iacono

Sono stato per alcuni giorni ad Agrigento. Ora sono tornato nella città in cui vivo. Ho incontrato il giovane sindaco di Racalmuto. L’ho trovato entusiasta e preoccupato insieme. Entusiasta per i compiti che si trova ad affrontare, preoccupato per la stessa ragione. Racalmuto ha l’importante Fondazione Sciascia e un piccolo teatro che è un gioiello. I soldi sono pochi, pochissimi. Speriamo che Messana riesca a fare di necessità virtù. Ho partecipato a un dibattito ad Agrigento a Villa S. Marco su etica e politica, ma in realtà si è parlato soprattutto del futuro sindaco della Città dei Templi, delle elezioni più o meno imminenti, della realtà politica e sociale di oggi. Ero partito da lontano, da un discorso sul rapporto fra comunità e città nel mondo antico. Forse era troppo lontano. Anzi, senza forse. Volevo sottolineare come una democrazia si regge veramente soltanto se vi è una comunità che la sorregge e consente ai cittadini un’unità inevitabilmente messa in crisi del gioco conflittuale fra maggioranza e minoranze. Nel nostro paese, in realtà non vedo un conflitto tra maggioranza e opposizione, ma uno strano coacervo dove tutti sono più o meno in maggioranza e tutti hanno una visione (molto, molto miope) analoga e interessi immediati diversi e conflittuali. Una novità? Per niente. Una storia vecchia dai tempi del riberese Francesco Crispi e soprattutto di Giovanni Giolitti. Ma oggi siamo nel terzo millennio e (quasi) tutto ciò avviene via twitter e facebook. Intendo il gioco del consenso attraverso il “mi piace”. Ma mentre parlavo e ascoltavo gli interventi dei miei amici con la giusta messa in risalto della lodevolissima esperienza agrigentina di Vallicaldi, con la mente una parte di me si è distaccata e ha cominciato a camminare per la città e come uno straniero mi sono guardato attorno, smarrito e insicuro. Non riconoscevo la mia vecchia Agrigento. Perché la rimpiangevo? Nostalgia dell’infanzia perduta? Forse. E forse no. Dopo tanti anni di Toscana, dove scrivo in modo critico e spesso mi lamento e denuncio errori, dopo tanto tempo passato in città in cui la storia e l’identità è ben visibile, ben mostrata e fortemente condivisa dai cittadini, vedere Agrigento oggi, sarebbe meglio dire in questi anni, è sconfortante. Accanto e attorno a uno scenario potente e superbo quale è la Valle dei Templi, trionfa il degrado più desolante. Agrigento è diventata negli anni un’accozzaglia di periferie senza nemmeno un centro. Fontanelle, Monserrato, Villaseta cosa sono esattamente? Periferie attorno a un centro che non esiste se non nell’incuria e nell’abbandono, in un’opera di decadimento molto probabilmente ormai irreversibile. E San Leone? Anch’essa una periferia disordinata su un mare dove vi è divieto di balneazione. Ma quello che mi colpisce è l’assuefazione degli agrigentini. Evidentemente, con il passare del tempo, ci si abitua a tutto. Al mare inquinato, a una strada come la SS 640 i cui lavori procedono a passo di lumaca (come nella Salerno-Reggio Calabria?), ai collegamenti stradali e ferroviari che quasi non esistono, a un luogo assurdo, periferico e quasi irraggiungibile, in cui sono situate le scuole più importanti della città nonché l’università, al trasando, al disordine. Un problema economico? Ho visto città ben più povere di Agrigento ma con ben altra dignità e senso del decoro pubblico. Un problema siciliano o del sud? Siracusa, Trapani, Marsala, per non citarne che alcune, contraddicono e smentiscono una simile ipotesi. In compenso si perde tempo a favoleggiare su un fantomatico aeroporto (quand’ero bambino, tanto tempo fa, si favoleggiava già sulla piana di Licata, ora sulla piana di Racalmuto. Nihil novi sub soli), non si batte quasi ciglio sul mare inquinato, si continuano a fare bizzarre gimkane e a sbagliare le uscite assai mal segnalate per i lavori in corso sulla SS 640), si assiste alla distruzione del centro storico, si cerca in San Calogero (peraltro, uno dei non moltissimi che legge un libro) un’eccezionalità, una peculiarità del popolo agrigentino che rischia di diventare un alibi, e San Calò non se lo merita, alla passività, al servilismo, a un individualismo che assume i connotati dello struzzo il quale nasconde la testa nel buco per non vedere fuor di casa lo sporco del marciapiede, che purtroppo caratterizza la vita politica e sociale cittadina.

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