IO, MADAME MUSIQUE E LE JEUNE GARÇON: COSI' ENTRAI IN BANDA di Enza Di Vita

Parliamoci chiaro: alle scuole medie proferii un bel “no” perentorio a Madame Musique. Le dissi esplicitamente che non mi avrebbe più rivisto e che quello, il concerto di fine anno scolastico, sarebbe stato il primo e l'ultimo della mia vita.

Lo dissi con voce forte e chiara subito dopo essere usciti di scena dinnanzi a numerosi testimoni, i miei compagni di sventura, tutti suonatori di flauto dolce.

Oh, se potesse parlare quel piccolo palco! Vi direbbe che si era appena consumata un'esibizione dal retrogusto tragicomico diretta magistralmente dal Monsieur più infedele di Madame Musique che ci svergognò (o meglio, si svergognò) palesemente davanti a tutti coprendo le nostre fatiche musicali con la sua famigerata “musicassetta del Can-Can” sparata a tutto volume lì davanti le nostre orecchie!

Un tradimento che forse la maggior parte degli altri cornuti non ricorda ma che la sottoscritta tiene a mente come fosse successo ieri.

Dicevo che Madame Musique non mi avrebbe più rivista; il suo adepto mi aveva s-concertata e il fatto che la Femme si facesse tradire così facilmente me la diceva lunga anche su di lei. Era questo quello che pensavo.

Passarono solo pochi mesi e un giovane bandista di un piccolo paese catturò il mio cuore di adolescente.

Ci troviamo ad Acquaviva Platani, piccolo borgo del nisseno, paese natio di mio padre dove la mia famiglia trascorreva le vacanze estive.

Acquaviva è lo stesso paese in cui Salvatore Quasimodo trascorse parte della sua fanciullezza, tant'è che ben lo ricorda nella sua lirica “Cosa vuoi pastore d'aria?” inserita nella raccolta “Nuove Poesie”.

Dicevamo: la mia liaison con le jeune garçon discepolo di Madame Musique, che a me sembrò durare un'eternità, si estese in realtà in un arco temporale che è ben esplicato dal detto “da Natale a Santo Stefano”.

Successe in pratica che arrivato “Santo Stefano” fui lasciata per la mia migliore amica. Un dramma nel dramma, una tragedia con doppio tradimento che mi sconquassò non poco. Ma come si dice: “cose di carusi!”, “che sarà mai!”. Fatto sta che bile è bile, pure a quindici anni.

Insomma, a questi affiliati di Madame Musique non dovevo stare particolarmente simpatica.

Sui numerosi amanti del gossip locale, invece, cominciavo ad esercitare un certo ascendente: mi accorsi infatti di essere sempre più spesso circondata, allegramente e sfacciatamente, da questi evanescenti figurini come fanno le api attorno al miele.

Ora, del fatto che in piazza mi venissero a chiedere del mio nuovo status di cornuta non voglio scrivere. Quello che voglio dire è che un altro homme di Madame Musique mi aveva tradita.

Fu allora che si insinuò in me un sentimento di rivalsa nei confronti “dell'universo” poco razionale che fatico a descrivere con le parole. Questo sentimento mi spinse ad entrare in banda.

Dietro ogni bandista c'è la famosa “scusa” cioè quella cosa, persona o situazione che in un preciso momento della vita l'ha trascinato in questo mondo.

Credo che la mia “scusa” fu un modo creativo di contenere il dolore o un modo che il dolore trovò di risolversi in maniera creativa.

In ogni caso, gli Antichi Greci avrebbero detto che Kairós aveva interrotto Chronos. Il “momento giusto ed opportuno” per essere ciò che sarei stata si era palesato e stava a me coglierlo nella sua veloce istantaneità.

La presenza di Kairós era tangibile e la potei sfiorare concretamente quando mio fratello disse: “ora o mai più”, alludendo lapidariamente al fatto che Chronos non era dalla mia parte e che forse avrei faticato un tantino in più nell'imparare a suonare uno strumento rispetto ad un fanciullo.

Avevo 16 anni quando portai a casa un clarinetto malconcio di proprietà del Comune di Acquaviva che dovetti “aggiustare” a mie spese per la modica cifra di lire 100 mila. Senza troppi preamboli feci firmare il foglio che attestava la presa in comodato d'uso dello strumento a mio padre.

Lui non mi incoraggiò e neanche mi scoraggiò, mi assecondò.

A dire la verità ero attratta dal flauto traverso, strumento che mi sembrava più femminile ed aggraziato (detto ciò, mi si poteva trovare a giocare a calcio balilla o a Street Fighter II nel bar della piazza, o a provocare l'ira dei fratelli maggiori sui fratelli minori quando la sottoscritta, “femmina”, li “umiliava” in qualche altro gioco “maschile”).

Per ragioni che non sto qui a spiegare perché più personali, ma che riguardano sostanzialmente il fatto che il suddetto strumento non si tenga in posizione perpendicolare rispetto al terreno, finii con lo scegliere il clarinetto.

Senza saperlo mi ero messa in mano un pezzo di artiglieria pesante. Non me ne vogliano i flautisti, ma noi battagliamo di più!

L'estate seguente vi fu la mia prima volta in banda.

Per un anno deliziai i miei colleghi bandisti con l'esecuzione (quasi capitale) di qualche nota sputacchiata qua e là.

Ma fu quando presi in mano le parti di primo clarinetto che tutti mi sentirono e mi conobbero. Compresi u zì Pe’ e u zì Ta’ che tra una scopa e un sette e mezzo, seduti un po' più in là della soglia del Circolo Combattenti, all'ombra della Torre Civica, erano soliti distogliere lo sguardo dal sacro tavolo al passaggio della banda. Fu così, che in più occasioni di festa, richiamavano la mia attenzione con un gesto della mano e con il proverbiale “attia carusa” e solerti mi chiedevano “di cu si figlia?”

La domanda, un vero e proprio automatismo nell'anziano di paese, trovava nel mio caso particolare giustificazione considerato che abitavo ad Acquaviva esclusivamente nel periodo estivo e considerata la facilità con cui la fisionomia muta a quell'età.

Tuttavia, essendo ormai maggiorenne, la mia maschera era per lo più siffatta e il mio volto sociale veniva definitivamente acquisito dalle rispettive e storiche banche dati du zì Pe’ e u zi Ta’.

Mi ero riabilitata. Da cornuta a musicante. Me ne compiaccio e “sto” (alla larga dai maschi), manco fossi seduta a giocare a sette e mezzo cu u zi Pe’ e u zi Ta’.

L'esperienza acquavivese fu per molti versi diametralmente opposta a quella giurigintana, cioè quella vissuta nell'Associazione Bandistica Intercomunale “V. Bellini” che riunisce i musicisti di Agrigento, Joppolo Giancaxio e Santa Elisabetta, diretta dal Maestro Carmelo Mangione e della quale attualmente faccio parte.

Che sia chiaro: la banda è banda ovunque.

Compagine formata da individui eterogenei per età ed estrazione sociale, è istituzione e al contempo simbolo di una comunità locale, nonché espressione di una certa cultura tradizionale. E' luogo privilegiato della promozione delle relazioni intergenerazionali ed è peculiare palestra di vita per la formazione culturale, sociale e civile dei giovani cittadini.

La banda è occasione di incontro e scambio umano ed intellettuale ove assume particolare rilievo la valorizzazione della dimensione gruppale.

La banda è organismo mediatore ed integratore delle diversità sociali nei piccoli come nei grandi centri. E' indicatore dello stato di salute comunale.

E' il posto in cui l'eterogeneità sociale degli individui che ne fanno parte viene armonizzata mediante l'utilizzo di un linguaggio comune: la musica.

Linguaggio universale che permette di comunicare e di sentire empaticamente vicino anche il più perfetto sconosciuto. Qui hanno compiuto i primi passi numerosi artisti di fama internazionale.

La musica è con la banda di tutti e per tutti.

Il bambino che entra in banda ha di fronte a sé la possibilità di sviluppare peculiari capacità tecniche strumentali e di imparare a maneggiare la vita sociale.

Le regole musicali ed associative insieme al confronto diretto che il singolo può sperimentare con attori molto spesso differenti tra loro per cultura e vissuto, si configurano come vie privilegiate dello sviluppo umano, culturale e civile dell'individuo.

Di queste vie fa parte l'arte dell'ascolto, individuale e collettivo: un buon musicista sa ascoltare se stesso da solo, e sa ascoltare se stesso insieme agli altri.

L'esercizio, la fatica, la frustrazione, il sudore e la sopportazione (quest'ultima, è virtù che si acquisisce con gli anni ed è principalmente riferita a: stonati, ritardatari, anarchici, amministrazioni comunali che non pagano, comitati feste che “se piove suoni uguale e si ti vagni, fatti to!”, suole di scarpe che decidono di abbandonarti in via Garibaldi per il Venerdì Santo, ma soprattutto te stesso!) rappresentano modalità ricorrenti nelle varie fasi del ciclo di vita attraverso cui avviene la costruzione e ri-costruzione dell'identità personale.

La banda è stata per decenni valida alternativa all'educazione musicale offerta in ambito scolastico, carente e lacunosa, poco aperta all'alfabetizzazione del popolo.

Pur non avendo perduto del tutto la sua tradizionale funzione storica tesa alla divulgazione delle Opere più celebri, oggi la banda può attingere ad un vasto repertorio originale orchestrato per valorizzare l'organico moderno.

Che la si chiami banda o “orchestra fiati”, termine mutuato dal mondo anglosassone che sembra imporsi sempre più nel panorama nazionale quasi a voler cancellare la natura popolare e folklorica dei complessi bandistici, essa rimane patrimonio dall'indiscusso valore sociale di una comunità.

“A Banna” è per me divertirmi a giocare col più piccolo, guardare teneramente e con ammirazione i veterani; è osservare il figlio del Maestro e pensare ai “corsi e ai ricorsi storici”. E' Tano che a fine processione ti dice di aspettare perché ha raccolto qualcosa per te in campagna. E' Michela che sa starti accanto senza chiedere nulla in cambio. E' questo ed è forse tanto altro.

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