COSTRUIRE ASSIEME LA POLIS di Tano Siracusa

Da molti anni non si vedeva il centro storico così pieno di turisti e  così vuoto di  occasioni di incontro, di iniziative artistiche e culturali. Non ci sono soldi dicono al Comune, e l’Ente Parco ha scelto per l’intrattenimento culturale estivo altri scenari, certamente magnifici, lasciando  però la città, il suo centro storico, vuoti e  silenziosi.  Eppure le sue piazze, gli slarghi, perfino le scalinate  in altri anni hanno ospitato manifestazioni musicali, teatrali, eventi espositivi. Non sempre con l’intervento di enti pubblici.
Quattro estati fa c’è stata l’ esperienza  Vallicaldi, che a ripensarci oggi  sembra avvenuta in un’ altra  città.  Rimangono le  tracce di quell’estate, il grande murales di Mister Thoms, alcuni dei murales dipinti da Scifo e Gianfranz, l’installazione di Gaetano Vella, qualcosa degli interventi di Nonsostare,  che avevano trasformato un cumulo di macerie in un palcoscenico  e  accanto un po’ di verde, un’idea di giardino.

In questa estate torrida l’intervento di allora sembra avvenuto in un’altra città o in una sua proiezione ideale, utopica, dove per una rara ma non impossibile alchimia della storia locale una molteplicità divisa, monadica, di individui fondamentalmente persuasi che gli altri siano poco più di una personale allucinazione,  a volte piacevole, più spesso fastidiosa, precipita in una specie di gorgo, dove le monadi si aprono, riconoscendo gli altri, la loro realtà,  e la possibilità di far convergere i progetti di ciascuno in un progetto condiviso, comune.
Ogni tanto succede anche qui, nella città dove sembra declinarsi  una forma estrema dell’individualismo meridionale, di cui le  vicende e le cifre legate all’abusivismo edilizio costituiscono l’aspetto forse più clamoroso.
 Il problema insomma non è l’Amministrazione Comunale  e neppure l’Ente Parco, non è la classe dirigente, che pure ha le sue responsabilità. Il problema - da consegnare agli specialisti di svariate discipline antropologiche - è che  quella fusione di intenti e progettualità avvenga così di raro fra gli abitanti di questa  città, anche fra la sua minoranza più avvertita e disponibile all’impegno civile e culturale, vissuto però normalmente all’interno di steccati che vanno dalle mura di casa propria ai piccoli gruppi di amici. Una minoranza di un  migliaio  di persone, quelle  che solo quattro  estati fa affollavano  gli spazi sotto via Atenea liberati della spazzatura e dalle discariche abusive,  dove i pochi residenti, per lo più senegalesi, davano una mano a decine di volontari.
C’erano tutti quell’estate, con e senza le sigle di appartenenza, forse perché Vallicaldi è stato vissuto per un paio di mesi come un laboratorio, non solo artistico,  aperto e tendenzialmente inclusivo, anche se tensioni, personalismi, incomprensioni, ne preparavano già in quelle settimane la crisi.
E nei primi anni ’90 c’era stato un movimento molto più vasto, profondo, radicale, proprio sul tema dell’abusivismo (e con tutte le caratteristiche del ‘gruppo in fusione’)  attorno alla candidatura di Arnone a sindaco. In quel contesto il ruolo della ricerca e dell’offerta culturale aveva avuto soggetti comunicanti, il Centro Pasolini, la rivista Suddovest, il Belushi con i cineforum partecipatissimi al cinema Mezzano. I gruppi teatrali e musicali. Anche quella è stata una breve stagione.
C’è da capire perché esperienze come queste, che ad Agrigento durano pochi  mesi, un paio di anni, in altre città italiane durino fino a radicarsi e incorporarsi nella vita cittadina. In questi giorni  a Bologna hanno sgomberato un centro sociale che aveva rianimato la vita di un intero quartiere, che organizzava il più importante mercato cittadino, e che l’intera città  oggi vive come una parte importante di sè.
C’è da capire perché gli abitanti di Agrigento abbiano costruito la città del dopoguerra, la città dei tolli e della frana, edificando come se gli altri non esistessero ( ad esempio i residenti nelle centinaia di abitazioni in centro storico che al posto della valle e del mare avrebbero visto le torri di cemento),  come se fossero appunto delle fastidiose allucinazioni.
C’è da capire questo. Una voglia di capire che è poi la premessa di una operatività  forse un po’ meno orba.
Vasto programma, avrebbe detto qualcuno.
E tuttavia personalmente conosco più di un paio di specialisti in discipline genericamente antropologiche, bravissimi, attrezzatissimi, che non si sono fatti addomesticare dal conformismo degli ambienti accademici, che si conoscono e si stimano anche, e che hanno già dato importanti contributi per stuzzicare e soddisfare in parte  quella curiosità, relativa poi al ‘quid’ dell’agrigentinità. E decine di operatori culturali, di artisti,  che anche su questo lavorano.
Peccato che anche loro molto raramente, in un ambiente comunque ristretto,  abbiano spezzato le pareti invisibili dei loro recinti per collaborare ad una ricerca comune, ad una messa in circolazione delle loro competenze e conoscenze, ad un progetto comune e condiviso, aperto e inclusivo, che inevitabilmente tende a travalicare l’orizzonte della pura ricerca per diventare  ciò che una volta si chiamava politica, quella cosa che presuppone gli altri, la loro realtà, e la possibilità discutendo di trovare un accordo, di costruire una prassi comune, di costruire assieme la polis. Nel nostro passato greco doveva essere la normalità, oggi è un evento.
Ma  quando questo evento accade, le rare volte che ciò  è avvenuto, anche il centro della città è tornato a riempirsi di persone, di suoni, di parole, di suggestioni, e gli altri, il loro esserci e fare, non sono stati ingombro ma, per ciascuno, conferma e  rafforzamento del proprio esserci e fare.