A PROPOSITO DI 'SEGNO', DEL 'LIBRO' DEI LIBRI E DEL WEB di Vincenzo Campo

Quando sono stato invitato a partecipare alla presentazione del il numero di Segno ora in distribuzione, avevo pensato di svolgere alcune mie considerazioni sulla Riforma protestante che ritenevo e che ritengo connesse a cose dette in occasione della presentazione del numero precedente; considerazioni che, dal mio punto di vista, valevano a sostenere le ragioni della continuazione della pubblicazione della Rivista.

La cosa curiosa e che mi ha colpito favorevolmente è che, proprio il numero del quale stiamo parlando, contiene un articolo di Felice Scalia sulla Riforma protestante e, in particolare, sui “doni” della Riforma stessa.

L’articolo è estremamente interessante e, per molti aspetti forse sbalorditivo, per me; già il solo parlare, in ambiente cattolico, di doni ricevuti dalla Riforma significa capovolgere un modo di vedere e di pensare tradizionale nella Chiesa cattolica; vero è che la strada, in qualche modo, è stata aperta e spianata dall’incontro di Papa Francesco con il Presidente mondiale delle chiese luterane, ma è anche vero che non sono mancate forti critiche in ambito cattolico.

Uno dei capitoli dell’articolo si sofferma sulla supposta asserita “fedeltà alla tradizione” usata per sostenere ragioni di opposizione alle critiche di Lutero.

E infatti il richiamo alla sola Parola, il ritenere fondativo della fede cristiana il riferimento ai soli Evangeli con esclusione della tradizione è uno dei punti fermi del protestantesimo: dunque la centralità della Parola e dello strumento che quella parola ha fatto conoscere e diffondere nel tempo e nello spazio, la Parola scritta, il Libro. Dal tempo di Abramo ai nostri tempi, dal Regno di Israele del tempo di Abramo a tutti i Regni del nostro tempo; perché, lo si voglia o no, piaccia o no, la Bibbia è “Il” Libro.

E, sempre dal mio punto di vista, uno dei meriti della Riforma è stato quello di liberare la conoscenza della Parola dal recinto nel quale era stata relegata, il recinto della lingua colta –del latino- e della esclusività della sua lettura, conoscenza e interpretazione da parte di chi ne era in grado, già per il solo fatto della conoscenza di quella lingua: i chierici.

Da qui innanzi tutto, la traduzione in lingua volgare della Bibbia e poi la necessità che chiunque fosse in grado di leggerla: bisognava saper leggere; bisognava imparare a leggere.

L’eliminazione della mediazione clericale nel rapporto con Dio, dunque, da un canto affermava un diritto, dall’altro imponeva la necessità di saper leggere, perché, ovviamente, non c’era più nessuno che avesse la capacità e l’autorità di leggere e spiegare la Parola di Dio in via esclusiva.

Questa è la ragione per la quale nei Paesi di tradizione protestante l’analfabetismo è stato vinto assai prima che nei Paesi di tradizione cattolica, e soprattutto in quelli mediterranei.

Il passaggio poi dal Libro ai libri è stato facile e quasi ovvio: letta la Bibbia si poteva leggere qualunque altra cosa, ovviamente.

E questa è la ragione per la quale è ordinario e normale vedere olandesi, tedeschi, svizzeri passare amabilmente il loro tempo libero a leggere un libro; magari in coppia, magari tutta la famiglia insieme, papà, mamma e figli, ognuno col suo libro e magari con una tazza di tè accanto.

Ma per leggere con attenzione, per mantenere l’attenzione, comprendere bene e se del caso riflettere e meditare, è ancora necessario un libro, o comunque un che di scritto e di stampato.

Utilizzo molto i mezzi informatici e i social network e nella mia professione sono stato uno dei primi a comprendere l’utilità le opportunità offerte dall’informatica; ho digitalizzato e memorizzato processi interi e la prima lettura l’ho data proprio in video, al Pc; ma poi, per approfondire la lettura ho dovuto sempre stampare su carta le parti del processo che mi interessavano e studiarle lì.

Voglio dire: sul web e sui mezzi informatici in generale possono andare “lavori” pensati e preparati per il web e per il mezzo informatico; brevi, accattivanti, che non richiedono una particolare concentrazione; una via di mezzo è l’e-book e l’e-reader, il libro elettronico e il suo lettore, appunto, che consente di fruire anche di “lavori” pensati per la stampa –ma con qualche riserva che non è solo di carattere, diciamo così, nostalgico.

Ora, Segno, a me pare, è un importante strumento di comprensione e di interpretazione della realtà e non può e non deve essere trasferito sul mezzo informatico, a meno di non volerlo snaturare, di farlo diventare “altro”, e “altro” a mio parere non deve diventare: sarebbe una perdita per chi ha a cuore il confronto, la discussione, la democrazia.

Sarebbe possibile e credo anche assai utile, ma se si ritiene di averne capacità e forza, costruire accanto a Segno una sorta di Segno mediatico e informatico, ma che non sia la riproposizione del primo, ma una sorta di rimando, di rinvio ad esso. Tecnicamente si può fare: si possono mettere in rete, come testi o come video lavori che sono le sintesi di quelli pubblicati sulla rivista; penso, per esempio, all’utilizzo di piattaforme di Web-Tv nelle quali riportare, con i dovuti aggiustamenti, gli stessi argomenti trattati in cartaceo.

Si potrebbe raggiungere un gran numero di persone, far veicolare il messaggio e, perché no, stimolare la lettura della rivista tradizionale.

Per esempio: sarebbe veramente impossibile riportare sul web o in web-tv l’articolo di Giandomenico Vivacqua sui sistemi di risoluzione dei conflitti in Afghanistan.

E però quell’articolo è estremamente interessante e per diverse ragioni e farebbe riflettere molto e molti sulle questioni legate l’islamismo, al terrorismo di matrice islamica, alla guerra diffusa che in atto si combatte, senza neppure essere stata dichiarata. E non solo su questo: sul far dubitare che il mondo che noi conosciamo sia il mondo tout-court, che esiste dell’altro e di profondamente diverso.

Da giurista, modesto giurista di provincia, sono stato abituato a pensare alla possibilità di due soli ordinamenti giuridici diversi: da una parte quello della tradizione romanistica, quello cioè dei Paesi dell’Europa continentale, e dall’altra quello della tradizione di Common law, quello cioè del Regno unito e per conseguenza degli Stati uniti.

Non ho mai pensato alla possibilità dell’esistenza di altri Ordinamenti o forse altri “non ordinamenti” e sono rimasto quasi senza parole a leggere l’articolo di Giandomenico.

E ho pensato pure di quanto sia difficile comprendere l’ Islam, col quale siamo comunque costretti a confrontarci e a fare i conti, perché se individuiamo come estremismo islamista certi comportamenti e certe azioni, dobbiamo necessariamente sapere cosa invece sia l’Islam “ordinario”, moderato. E invece in realtà non lo sappiamo, parliamo un po’ a vanvera, per sentito dire.

Ecco, io non voglio raccontarvi l’articolo di Giandomenico Vivacqua, non voglio farvi il suo sunto, semplificarvelo e farvelo conoscere; vorrei riuscire a suscitare la vostra curiosità e far sì che andiate a leggerlo, l’articolo di Giandomenico.

Ecco: questo potrebbe fare il web o la web-Tv, il Segno web, il Segno parallelo.

Alla stessa maniera vorrei darvi le mie impressioni sull’editoriale di questo numero, anch’esso molto bello e interessante: una notevole quantità di spunti di riflessione sul berlusconismo, sul superamento della democrazia, sul narcisismo della politica che si specchia nei mezzi di comunicazione di massa.

E questo m’induce a riflettere su cosa sia stato tangentopoli, quando noi sinistra abbiamo –lasciatemelo dire- acriticamente levato plausi a chi faceva fuori i nemici che noi non avevamo saputo battere coi sistemi che conoscevamo e che ci erano “propri”, quelli democratici del confronto e della persuasione.

Ora che sono passati anni e anni, e abbiamo avuto l’opportunità di digerire tutto, che abbiamo davanti agli occhi le conseguenze e i frutti di quello che successe, da Berlusconi al berlusconismo, dalla personalizzazione della politica, al leaderismo imperante, ora dovremo riflettere sulla possibile esistenza di vie giudiziarie alla soluzione dei problemi politici e sociali, sul primato della politica sulla giustizia, sull’economia e sulla tecnica. E su ogni altra cosa.

E a continuare con questo discorso e ricollegandomi idealmente a quanto è stato detto in occasione della presentazione del precedente numero di Segno, non dovremmo riflettere pure sull’antimafia come è stata fatta, sui suoi risultati, su quanto ottenuto? Se riteniamo che la mafia, intesa come Cosa nostra, tralasciando fenomeni che l’hanno scimmiottata, dopo anni e anni di antimafia, sia stata battuta, siamo solo degli ingenui per non usare parole più forti e forse più appropriate.

Oggi c’è pace sociale, non si spara per strada e non ci sono attentati; non c’è la mafia? Questi, invece, sono proprio elementi sintomatici dell’attuale esistenza e persistenza della mafia.

E qui, a pensarci bene, mi viene da pensare che a leggere l’articolo di Giandomenico Vivacqua avrei dovuto stupirmi assai di meno di quanto non abbia fatto; perché so, e so bene, che parallelo all’ordine giudiziario italiano che io conosco, quello della tradizione romanistica di cui parlavo prima, ce n’è un altro, quanto meno in Sicilia, che è quello non scritto, non codificato, non ufficiale di Cosa nostra. Efficace quanto quello dello Stato, e che consta di un diritto sostanziale, con le sue proprie figure “criminose”, e di uno processuale, con le sue regole per stabilire la “verità” ed eventualmente applicare le sanzioni.

Un ordinamento parallelo, nascosto, come nascosta è ogni cosa della mafia.

E forse il modo per batterla è proprio quello di cercare di penetrare attraverso i drappi e i veli che coprono le sue cose

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