PERIFERIE. "SO COSA SIGNIFICHI VIVERCI" di Carmelo Sardo

Tutti conosciamo le periferie, ma ognuno le conosce a modo suo. Tutti sappiamo e possiamo parlarne, ma solo chi le ha vissute e le vive può raccontarle. Diversamente resteranno un concetto astratto, attorno al quale ogni proposta e ogni suggerimento finiscono per alimentare un dibattito che rischia di cozzare contro certa riluttanza, politica e culturale, nell'affrontare il fenomeno dalle sue viscere. Ma bisogna parlarne certo, e correrlo questo rischio, provando a non cedere ai soliti vecchi ritornelli stereotipati, o a facili e abusate metafore. E allora, sì, è vero che l'uomo ama per natura "accentrarsi"; che il centro è e resterà sempre il cuore pulsante delle città, accalappiatore di turisti, ammaliatore di giovani a frotte, allettati da negozi e da locali alla moda; rappresentazione, se non ostentazione, di benessere, in cui cercar riscatto smarcandosi da quel cibreo disordinato che contorna il salotto buono delle città, dove si allungano periferie eternamente degradate ( ecco, ho ceduto anch'io ai luoghi comuni, ma parlandone è inevitabile).

Allora provo ad andare oltre e a raccontarle le periferie: anzi, la mia periferia. Perché io vengo da lì. Lì sono cresciuto e da lì sono partito, ed è lì che torno quando torno, perché lì c'è ancora la mia casa, dove da oltre quarant'anni vive mio padre. Lì, in quel posto dimenticato da tutti e da Dio ho costruito il mio futuro, che detta così suona quasi come un ossimoro.

Quando appena quattordicenne, con la mia famiglia, dal centro (abitavamo a duecento metri dal viale della Vittoria di Agrigento) ci trasferimmo al villaggio Mosè, fu per me peggio di una tragedia. A quel tempo il villaggio Mosè era un povero agglomerato di case di minatori, l'una attaccata all'altra nello spazio di cinquecento metri quadrati. Per arrivarvi si tagliava in due un'aspra campagna, dove le vecchie case di pastori, sminuzzate sulla collina di poggio Muscello, si contavano nelle dita di una mano. Le prime tracce di quello che sarebbe diventato negli anni - 'che nessuno immaginava uno sviluppo (o un saccheggio, se preferite) di quelle dimensioni- si ebbero con la costruzione del Jolly Hotel. Eravamo a metà degli anni '70 e per andare a scuola bisognava ammassarsi su una corriera obsoleta che arrivava da Licata e arrancava a passo d'uomo sulla collina dei templi sbuffando fumo nero, che per coprire i sette chilometri necessari per raggiungere il capolinea di piazza Stazione, impiegava quasi mezz'ora. Il dramma della vita in periferia l'ho prima subìto, poi l'ho sfruttato e in qualche modo ne ho fatto tesoro. Ho scoperto col tempo il piacere di esaltare i riflessi della solitudine geografica e va da sé culturale: niente negozi, niente locali, niente luoghi di svago, di ritrovo, niente biblioteche. Solo un piazza dove giocare a pallone e tanta campagna da esplorare, e rapporti umani e amicizie veri e profondi da coltivare. E allora, lontano dalle variegate tentazioni del centro, la periferia ti "costringeva" a rimediare ai suoi limiti, alle sue lacune, e ti metteva nelle condizioni ottimali per sopperirvi anche semplicemente studiando, o meglio ancora scoprendo l'arte della lettura (di libri, intendo, come nel mio caso), nella beatitudine di un silenzio assordante. In quale meandro di centri storici chiassosi si possono ritagliare tempi di godimento come la lettura di un buon libro sulla punta di una collina che guarda solo altre colline e laggiù in fondo il mare, "disturbati" di tanto in tanto dal lieve belare di greggi al pascolo? E dove liberare meglio la fantasia acerba di un ragazzo che cresce e sogna e immagina con gli occhi che inseguono una farfalla, o il serpeggiare a scatti di una lucertola nel cuore brado della natura? Certo, poi si cresce, appunto, e gli spazi si restringono, le esigenze mutano, le periferie si fanno soffocanti, e si allargano di cemento e di asfalto, di palazzoni e di supermercati, e di centri commerciali, e di alberghi, e di caos urbanistico, di edificazioni scriteriate e illogiche. Quella periferia disadorna e lontana si è fatta città senza esserlo. Un paesone senza testa e senza coda, e senza centro. Una kasbah di case tirate su nella campagna brulla, dove le strade sono diventate trappole di buche, fiumi di acqua e di fango quando piove, e per guard rail colonne di sterpaglie quando va bene, se non di spazzatura. Un tempo quella periferia riuscivano a 'governarla' due tre spazzini, e la volontà mai stanca dei suoi abitanti. Ma erano quattro case, e non quel ginepraio nevrotico che e' diventata oggi. Ora, io non mi intendo di urbanistica, né di architettura. Non ho pertanto la pretesa di individuare colpe e responsabilità in questo ambito, né di proporre soluzioni. Più prosaicamente, nel dibattito sul tema eterno delle periferie, quel che bisogna far emergere, non è più tanto uno scarto sociale tra chi vive geograficamente ai margini e chi al centro delle città, che così netto non è più se si considera che nei lembi degli agglomerati urbani vivono ormai sempre più professionisti, fasce più abbienti; quanto insistere sulle differenze di approccio culturale, prima ancora che politico, con cui si amministrano i salotti e le periferie. E' qui che non si compie ancora quello scatto in avanti che libererebbe le periferie dal loro eterno oblio. Straordinarie serbatoi di voti da coccolare all'occorrenza, per usare un'espressione che rischia di apparire populistica, salvo poi trascurarle sistematicamente a risultato acquisito. Chi osa contraddire questa equazione? Capisco sia doveroso per un amministratore preoccuparsi di ingentilire il centro: cartoline a effetto propaganda da esibire a favore di telecamere e giornalisti. Facile! La vera scommessa è piuttosto ripartire dalle periferie e rilanciarle. E se proprio non sia possibile farlo, laddove una disarmonia urbanistica non lo consenta, che si adoperino gli amministratori quanto meno per renderle più praticabili e pertanto più vivibili. A cosa mi riferisco? Chiedetelo a chi ci vive. O fatevi un giro nelle nostre periferie e osservate. O dormiteci una notte. Il latrare di spelacchiati cani randagi non vi farà chiudere occhio. Le zanzare proliferano agevolate dalle erbacce che sbucano dai marciapiedi sventrati e si arrampicano fin sui balconi delle case e vi tormenteranno senza posa. Quando infine avrete preso sonno, con la luce del primo mattino sarete svegliati dai più disparati venditori ambulanti: comincia il fruttivendolo con lo spernacchiare della sua moto-ape (benedetti i muli di una volta) e la sua voce stridula e ficcante; se ne va lui e arriva il pescivendolo con un furgoncino e cassone 'surgelato' che la sua voce invece la spara, peggio, in un microfono e un altoparlante la diffonde nell'aria; e poi quello del pane, e d'estate quello dei gelati, e per non farci mancare niente, nella Vucciria multietnica di periferia, si leva altissima l'abbanniata 'tappè tappeeeeeè' del venditore di tappeti marocchino.

Come ogni buon siciliano di mare aperto, 'costretto' ad andare a lavorare altrove, divorato dalla nostalgia non vedo l'ora di tornare a casa, di tornare nel mio adorato sud, come una fuga dell'anima. Ma, lo confesso, la periferia perfino amata negli anni acerbi della prima giovinezza, dopo pochi giorni ti respinge. E allora, o vai a cercare una sistemazione altrove, meno soffocante, o non vedi l'ora di ripartire. E quando riparti, tagliando la strada che un tempo squarciava la campagna, lungo quel vialone che è diventato oggi, di auto in coda, di auto che sbucano dalle innumerevoli traverse, di auto parcheggiate in doppia e in tripla fila, di negozi grandi e piccoli, di bar e di centri commerciali, di edicole e di officine distribuiti in quell' asfittico moderno Cnosso, ti senti come Teseo che si libera seguendo il filo di Arianna. Ma anche questa è una metafora, e le metafore non liberano le nostre periferie.

 

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