DOLORI E RICOMPENSE, UNA QUESTIONE DI CALCOLI di Stefano Vivacqua

Generalmente, il mio mondo si estende sin dove mi è consentito essere assolutamente libero di dire e fare e, ancor più, di non fare quello che mi pare: quindi, non oltre la porta di casa mia. Con qualche breve escursione fuoriporta per ragioni di stretta necessità. Una di queste è la periodica triturazione dei miei più assidui compagni di vita, almeno degli ultimi vent’anni: i calcoli renali. In queste circostanze, ciò che ne esce frantumata è soprattutto la mia pazienza, messa a prova da tutti quegli insulsi impedimenti alle mie libertà che il ricovero ospedaliero sempre comporta.

Io pietrifico; sono una sassaia umana, come ebbe a dirmi un luminare nordico dell’urologia, se mai ve ne fossero in una specialità idraulica tanto approssimativa e impotente. Pare sia un privilegio ereditario, ma credo, in questo caso, d’aver superato il già fertile genio paterno. Povero papà: il più etereo degli uomini, dannato, come per contrappasso, da un’ innata prolificità materica. Fortuna che adesso hanno inventato il cannone di precisione! Ai suoi tempi si andava a intrugli, rivoltanti infusi d’erbe amare, inutili palliativi contro il più tenace e sadico degli assassini che si annidano nel corpo umano. E’ noto che non esiste dolore più atroce, più acuto e incontenibile; è scientificamente provato che il parto e il trigemino vengono buoni secondi, niente è paragonabile ad una colica renale come dio comanda. E non è tutto. Le coliche sono un po’ come quelle furibonde e fugaci scariche d’acqua in pieno agosto: degli acuti imparabili e lancinanti, ma passeggeri. Quello che, invece, alla lunga avvilisce e debilita è il costante marzo pazzo, l’ininterrotto incombere della tormenta, il martellamento intermittente di piogge sottili e subdole, le giornate che si trascinano cupe e irrespirabili, e, di tanto in tanto, inattesi sprazzi di sereno: come d’incanto, o perfidamente, il coltello tace, le fauci maledette sembrano aver mollato il morso, ma non sai se durerà, se non è il solito beffardo nascondimento, se fra un attimo o un’ora il cagnaccio non tornerà a sfiancarti. Ma intanto respiri, quasi riconoscente al tuo lunatico boia per la tregua insperata. E così, giorno per giorno, si tira avanti, una vita a dir poco aleatoria, piegata letteralmente all’arbitrio di invisibili monoliti di cui tu stesso sei l’inesausto artefice e l’esausta vittima. Ma non è mia intenzione, né, d’altronde, mio costume compiangermi. Intanto, a me sono toccati rimedi migliori di quelli paterni. E poi, bisogna considerare l’effetto dell’abitudine: col passare del tempo, anche l’afflizione più perfida, al pari del piacere più squisito, sconta il livellamento dell’assuefazione. Senza dire che la dimestichezza con il dolore fisico ha anche i suoi vantaggi, per chi sa coglierli. Tempra il carattere, affina la coscienza, dispone all’inattività , dunque alla riflessione, alla lettura, al silenzio, all’essenzialità. Pian piano disabitua alle futili distrazioni e alle inutili socievolezze, e rivaluta la solitudine. L’incarnazione del dolore aguzza lo sguardo su sé stessi e sul mondo. Oso dire che non c’è esperienza spiritualmente più feconda di una prolungata passione corporale, almeno quanto può essere fisicamente deleteria una persistente agitazione dell’animo. E infine, la cosa più importante: chi patisce nella propria carne, espia, riscatta ogni debito: in una parola, non ha obblighi e pendenze con chicchessia. Alla lunga, un’espiazione liberatoria, che esercita all’autosufficienza e guarisce dall’ansia di compiacere il prossimo, e perfino dal dovere di amarlo. Insomma, come si dice, si diventa esperti marinai guerreggiando contro i flutti e le tempeste, non certo scivolando nella bonaccia. Ed eccomi qui, reduce di mille battaglie e dall’ennesimo bombardamento, a rivendicare la mia ricompensa: una fetta di sole decembrino, il mare all’orizzonte, il mio gin tonic, e nessuno è più felice di me.

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