I VALORI DELLA SINISTRA ALLA PROVA DEL MONDO CHE CAMBIA di Giandomenico Vivacqua

(Lo scorso 18 giugno al circolo Empedocleo di Agrigento si sono incontrati uomini e donne della sinistra per un primo confronto politico-culturale dopo la sconfitta elettorale del 4 marzo. Di seguito pubblichiamo l'intervento introduttivo di Giandomenico Vivacqua)

Ci siamo convocati, pensando di interpretare, in seno alla nostra area politica e culturale, un comune stato d’animo, una diffusa necessità, il bisogno di ragionare sulle cose accadute e su quelle che ancora possono accadere, dopo una sconfitta elettorale senza precedenti nella storia repubblicana, il traumatico, doloroso arretramento, sul piano del consenso, dei partiti e dei movimenti che si richiamano, con diverse sfumature ideali, con maggiore o minore convinzione e fedeltà filologica, alla storia, alla tradizione della sinistra italiana ed europea. 

Non un’analisi del risultato elettorale, orientata a chiarire le ragioni dell’inefficacia delle soluzioni tattiche esperite, delle formule e degli schemi adottati dai soggetti politici del nostro campo nella recente competizione, ciascuno col suo diverso carico di responsabilità. Piuttosto, una ricognizione patrimoniale, una verifica della consistenza e dell’attualità dei beni morali pertinenti, più che appartenenti, alla nostra famiglia; quei valori della sinistra, di cui al titolo del nostro incontro, che necessariamente preesistono ai tentativi organizzati di tradurli in azione politica.

Mi riferisco a quel peculio di idee, di principi e di sentimenti che, variamente declinati, hanno definito per molto tempo il perimetro della nostra particolare identità, al cui interno è stato possibile confrontarsi, scontrarsi, anche aspramente, ma pur sempre riconoscendosi nelle comuni aspirazioni e sapendo riconoscere chi, fuori da quel perimetro, era mosso da altre idee e nutriva diverse aspirazioni. 

Chi di noi si è formato umanamente e politicamente nel vecchio ordine di cose, sa a cosa mi riferisco. Si stava o di qua o di là, e la scelta, in genere molto precoce, imponeva l’adozione di precisi codici etici ed estetici, inconfondibili e inassimilabili. Entrare in un’aula universitaria con un particolare giornale in tasca (allora si leggevano i giornali), con i capelli lunghi o corti, con un eschimo verde o con una giacca di pelle nera valeva a declinare precise generalità politiche. Questo per i giovani militanti; per i più adulti il discrimine era nel linguaggio, che con la pratica politica si affinava nelle figure retoriche, meno immaginifiche e più conseguenti, oltreché, come è ovvio, nella concreta testimonianza di vita: i richiami all’ordine e alla tradizione stavano agli uomini e alle donne di destra, come un lessico ricco di riferimenti al riscatto sociale delle classi subalterne stava agli uomini e alle donne di sinistra. L’affermazione delle immutabili prerogative della maggioranza era di destra; la sensibilità verso i diritti delle minoranze era di sinistra. L’atlantismo, una bandiera della destra; il terzomondismo, un vessillo della sinistra. L’insofferenza verso la morale sessuale cattolica, di sinistra; una certa ipocrisia codina, di destra. La curiosità intellettuale, i dubbi, i libri, i film e la musica erano di sinistra; la certezze, la questura, le forze armate, la famiglia erano di destra. La costituzione era di sinistra; il codice penale, di destra. I vescovi un baluardo della destra; i preti operai, una risorsa della sinistra. La magistratura era un’istituzione di destra; tuttavia i pretori erano i campioni di una giustizia di sinistra. Potrei continuare, ma ci siamo capiti e inoltre non voglio entrare in competizione con il grande Gaber.

Insomma, o di qua o di là. In quella temperie, prima della caduta del muro di Berlino, chi avesse affermato che tra la destra e la sinistra non ci sono differenze, non avrebbe detto solo una cosa sbagliata, ma una cosa radicalmente incomprensibile, fuori dal senso comune, una provocazione dadaista, un eversione della ragione e della logica.

Poi, le cose hanno cominciato a cambiare, dapprima lentamente, poi, sempre di più, in modo vorticoso. L’implosione dell’impero sovietico, sotto il peso della sua stessa rigidità cadaverica, il dilagare di un capitalismo finanziario disancorato da qualunque forma di efficace controllo politico, la necessità degli operatori economici di competere sui mercati globalizzati, la conseguente precarizzazione del lavoro, i prodigi della tecnologia digitale, la ricomparsa dei nazionalismi, l’abbrutimento consumistico e il contestuale impoverimento della classe media, il siderale aumento in tutto il pianeta della distanza tra i ricchi e i poveri, l’infiammarsi di vecchie piaghe conseguenti alla decolonizzazione, la guerra di religione in seno all’islam, con l’affermarsi di un radicalismo violento e a tratti mostruoso, la dimensione epocale assunta dal fenomeno migratorio.

L’elenco è parziale, ma è pur sempre indicativo del mutamento di paradigma dentro il quale ci troviamo e con il quale dobbiamo fare i conti. Un mutamento, che a dire di molti, comporterebbe il deciso superamento delle categorie otto-novecentesche. Destra e sinistra, si dice, sono definizioni senza più reale significato, schemi di ragionamento ormai svuotati dei loro contenuti. Le differenze che contano, se ci sono, sono altre. Quali? La domanda è: la giustizia sociale, il diritto ad un lavoro decentemente retribuito, la tolleranza e l’accoglienza dell’altro, la diversità culturale considerata come un bene da preservare e coltivare, il rispetto assoluto per il valore della vita umana e per la dignità delle persone, senza differenze di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali (come scrive il costituente), la solidarietà tra gli umani, la liberazione degli oppressi, il riscatto degli sfruttati, tutti questi valori e principi, la cui enunciazione può apparire oggi persino ingenuamente romantica, ma nei quali abbiamo fortemente creduto e per la cui affermazione abbiamo messo nel conto, negli anni dell’entusiasmo giovanile, di lottare e di soffrire, sull’esempio delle generazioni precedenti, sono ancora attuali? Sono ancora validi per le nostre intelligenze e cogenti per le nostre coscienze? O i cambiamenti di cui si è detto suggeriscono una revisione dei fondamentali, un prudente e realistico arretramento ideale? Vale ancora la pena impegnarsi politicamente, nelle forme organizzate dei partiti o espressive dei movimenti, per l’affermazione di quei valori, o il nuovo paradigma universale li ha resi obsoleti, smascherandone la sostanza velleitaria, utopistica, consolatoria? 

Venuto meno il riferimento teorico al pensiero materialista, screditato e poi travolto dalla fallimentare esperienza dei paesi del socialismo reale, ci siamo ancora ritrovati a coltivare i nostri valori nel più rassicurante campo del “mondo libero”, dove il principio di libertà gode del prestigio della lunga tradizione liberale, mentre quello di uguaglianza, sotto la spinta costituzionale, trascorreva lentamente ma significativamente dalla dimensione formale a quella sostanziale, generando nuove tensioni tra le classi sociali, ponendo delicati problemi di giustizia distributiva, ma rimanendo comunque, per molto tempo, un faro di tutte le forze riformiste, che hanno concorso alla costruzione dello stato sociale. Oggi, tutto questo sembra archeologia. La sinistra attraversa una crisi di dimensioni planetarie. Dovunque, in Europa e nel mondo, si affermano forze regressive, si consolidano esperienze di chiusura, gelose, arcigne. Persino nei paesi dal grande blasone democratico, forze che un tempo non avremmo esitato a definire fasciste, se non sono al governo, il governo insidiano con percentuali di consenso fino a ieri impensabili.

Che succede, perché il popolo volta la schiena ai suoi difensori? Perché gli operai, gli intellettuali, gli studenti, i ceti che eravamo abituati a considerare inalienabili hanno ceduto alle lusinghe di abili e spregiudicati demagoghi. Come è accaduto che mentre eravamo impegnati a costruire ambiti di convivenza sovranazionale sempre più ambiziosi, i sovranisti, sfruttando le contraddizioni e i limiti del processo di integrazione, sono finiti al governo? Com’è possibile che oggi il consenso premi i partiti e i movimenti che hanno trasformato la paura (in molti casi da loro stessi alimentata) e l’insicurezza del ceto medio impoverito in capitale politico, articolando, rispetto alla complessità dei problemi, una ricetta di disarmante semplicità: meno tasse per i ricchi, un sussidio per i poveri, i migranti a casa loro? Sono queste le domande che premono e che suscitano altri quesiti. 

1) La sinistra arretra perché sono i suoi valori ad essere superati o ad essersi rivelati troppo distanti dai fondamenti antropologici della società?

2) La sinistra arretra perché ovunque nel mondo, e per quello che ci riguarda in Italia, sono inadeguate, fiacche, irresolute le forze che hanno il dovere di rappresentarne e difenderne i principi? 

Sotto il primo profilo, è travolgente la questione dell’immigrazione, che sta consolidando un consenso di massa per la destra. Quali tenebrosi recessi dell’animo umano agita ed intorbida la figura del migrante? Il 30% degli elettori del principale partito della sinistra consente con le iniziative del neoministro Salvini. Una parte rilevante dell’opinione pubblica applaude soddisfatta e si gode la sua rivincita sui social, con un linguaggio che fa paura, che atterrisce e sgomenta.

Il flusso immigratorio, con le discutibili ma efficaci politiche del precedente ministro, si era ridotto dell’80%. Non era ancora sufficiente, occorreva dimostrare, con una smargiassata propagandistica, inutile e crudele, che in Italia oggi si fa sul serio, ad onta del diritto e dei buoni ed inutili sentimenti, come nell’Ungheria di Orban, e nell’America di Trump. Cosa volete che ci importi del destino dei migranti, quando in Italia molti milioni di cittadini vivono sulla soglia o sotto la soglia della povertà? Ed è vero, in Italia ci sono i poveri e sono tanti. Molti di più di quanto non appaia. Saranno consolati, finalmente, questi poveri, dalla durezza promessa contro l’immigrazione clandestina? Migliorerà, finalmente, la loro condizione, grazie alla chiusura dei porti? C’è qualche nesso tra i due fenomeni? Può la sinistra, attingendo ai suoi valori, trovare un punto di equilibrio e renderlo desiderabile, tra la paura e la speranza, tra l’umanità e il diritto? Sono in grado i dirigenti della sinistra di percepire la sfida tremenda che grava su questo tempo? Sono capaci di non smarrirsi, di non agire istericamente di fronte all’attuale perdita di consenso, conservandosi all’altezza della propria missione storica, che è sempre stata quella del progresso e della solidarietà, della fratellanza tendenzialmente senza confini?

Abbiamo perso, è vero, il sostegno di un sistema ideologico che sembrava infallibile, ma persino quella costruzione teorica non era che un mezzo rispetto al fine, una modalità scientifica, così si pretendeva, di incarnare nella storia alcuni valori, i nostri. Siamo ancora in grado, mentre la casa brucia, mentre il pianeta sembra non poterne più di noi umani e della nostra arroganza, di intravedere un mondo migliore di questo e la strada per arrivarci? 

Certo, rispetto a questioni del genere, la discussione generata dai nostri attuali tormenti, dalla nostra mai risolta diaspora, la discussione, intendo, che attraversa il Partito democratico e le altre forze della sinistra, all’indomani del voto scioccante del 4 marzo, occorre dirlo, appare terribilmente arretrata, politicista, destituita di senso comune. 

In generale, mi sembra che la sinistra italiana abbia scontato in questa fase, al di là della crisi sistemica in cui si trova coinvolta, alcune stridenti contraddizioni: 

  • dall’esibita promessa di rinnovamento, con cui solo ieri si pretendeva di liquidare un’intera generazione politica, credendo così di ereditarne il consenso faticosamente conseguito in molti decenni di dura lotta, ai criteri di gelosa autoconservazione applicati dagli attuali gruppi dirigenti in occasione delle candidature;

  • dalla disinvoltura con cui abbiamo praticato un realistico disimpegno rispetto ad alcuni temi costitutivi della nostra identità, perché appesantiti da sentori novecenteschi (ne ricordo solo uno, per tutti, sul quale è caduto il più denso e disarmante oblio: la Questione meridionale), alla difesa tardiva e affannosa di quella stessa identità, affidata, sul piano dell’enunciazione e della rivendicazione, a interpreti degni, ma poco attinenti e debolmente vocati;

  • dal precipitoso abbandono delle consolidate prassi di penetrazione culturale e di diffusione delle nostre idee, all’incapacità di evolvere autenticamente nel linguaggio, superando il lessico d’ordinanza del secolo scorso, senza tuttavia scadere nell’attuale afasia, nel petulante e insignificante prontuario espressivo della comunicazione politica contemporanea, buono tuttalpiù a rintuzzare i colpi nelle risse social

Era lecito aspettarsi qualcosa di più e di meglio. Qualcosa di più, che non le vedovili geremiadi contro il populismo e l’antipolitica, alla cui genesi – lo dico per inciso – anche noi abbiamo contribuito, con una pratica irresponsabile di delegittimazione non convenzionale, diciamo così, della classe politica di governo che risale almeno ai decenni finali del secolo scorso. La lapidazione fisica e simbolica dell’odiato Craxi all’uscita dell’Hotel Rafael è un pagina del nostro album di famiglia, è stata il piazzale Loreto della nostra generazione. I rottamatori non sono marziani, si sono nutriti di questo immaginario, e li abbiamo nutriti noi. 

Rispetto al governo attuale. Il tanto peggio tanto meglio non è mai stato il profilo della sinistra italiana e non è una metodologia che forze politiche responsabili possano sposare e rivendicare. Anche qui, lasciamoci guidare dai nostri valori, se siamo ancora in grado di riconoscerli. Ad una coalizione di governo che promette di superare le proprie evidenti contraddizioni, radicalizzando le proposte identitarie di ciascuna componente, dalla stretta giustizialista alla gestione poliziesca del fenomeno migratorio, dal tradimento del principio di progressività fiscale all’oscurantismo su alcuni diritti civili, il miglior regalo che possiamo fare è quello di rimanercene in disparte, offesi e immusoniti, ad aspettare che si facciano male da soli. Nell’attesa, faranno male principalmente al Paese. In quelle contraddizioni, io penso, occorre buttarsi, con slancio garibaldino o con l’astuzia del conte di Cavour, se ne siamo capaci, fino a farle esplodere, il più rapidamente possibile, riconquistando ad una più ragionevole prospettiva, non solo gli elettori della sinistra attualmente in libera uscita, ma anche quella parte del Movimento Cinque Stelle, militanti e dirigenti, giovani e inesperti, magari, ma generosi, con cui forse è possibile, per il bene di tutti, un compromesso. E voglio concludere il mio intervento con questa parola malfamata, compromesso, perché la politica non potrà mai più ritornare quel nobilissimo impegno teso al miglioramento delle condizioni morali e materiali della comunità, se non saprà fare buon uso, senza vergognarsene, del suo principale strumento: la faticosa mediazione, condotta senza rabbia e senza fanatismo, senza demolire l’avversario, senza demonizzarlo, senza esasperarlo. Vorrei che di questo adesso si parlasse. Ciascuno offra il suo contributo, secondo le sue possibilità, teoriche o esperienziali.

Buona discussione!

 

 

 

categorie: